Caccia al capriolo in Montefeltro. Per ricordare un grande della caccia italiana, Danilo Liboi, nel giorno del suo sessantesimo compleanno.
Le componenti per far sì che questa storia sia emozionante ci sono proprio tutte. Un magnifico animale. Un compagno di caccia che si è dimostrato essere uno dei più cari e preziosi. Un mio errore clamoroso a cui è seguita la sparizione del becco in questione per quasi due settimane. La paura di averlo toccato con tutte le implicazioni psicologiche che questo timore ha generato. Poi la liberazione causata dal suo successivo avvistamento. Il tutto coronato da una conclusione degna di una storia così coinvolgente.
Come vedete l’unica cosa che potrebbe guastare una vicenda che inizia con queste premesse può essere solo la mia penna. Quante volte ci è capitato di aspettare con ansia l’uscita di un film tratto da un libro che ci ha segnato l’anima, per accorgersi poi che nessuna delle emozioni che avevamo vissuto durante la sua lettura si è ripetuta. Anzi. In qualche modo la visione del film ha contaminato il ricordo che ci portavamo dentro, lasciandoci il gusto amaro di una profanazione. Ecco. Io non vorrei che mi accadesse questo. Ma la storia vale veramente la pena di provare a raccontarla e correrò questo rischio volentieri.
La ricerca di un capriolo straordinario
Andare alla ricerca di un determinato animale, magari visto più volte e seguito durante tutte le stagioni dell’anno (addirittura anche per più stagioni consecutive) nell’attesa di avere la possibilità legale e biologica per poterlo prelevare, è un piacere che solo chi lo ha provato è in grado di apprezzare. E questo vale per tutti gli animali che abbiano delle caratteristiche particolari e non solamente, come erroneamente si potrebbe credere, per i portatori di trofei importanti.
In tutte le valli esistono leggende più o meno conosciute, più o meno segrete, che riguardano animali straordinari trofeisticamente parlando, sui quali la sfrenata fantasia di ogni cacciatore ha lavorato, trasformandoli in veri e propri miti. Miti che probabilmente non posseggono più, o verosimilmente non hanno mai posseduto, una vita reale: sopravvivono grazie alla magia del racconto davanti a un camino acceso, grazie all’alone di mistero opportunamente creato loro attorno.
Così la “vecchia” (capra dal trofeo come il manubrio di una bicicletta) o il “mago” (cervo con una foresta di punte, che compare solo durante la brama per sparire poi nei reconditi nascondigli dell’amica montagna), su cui vengono intessute queste colorite leggende, vengono sovente nominati anche da coloro che, pur se lo fosse in realtà mai stato possibile, non hanno sicuramente visto l’animale di cui parlano sottovoce, con più ammiccamenti che osservazioni, nel tentativo a volte patetico di possedere un segreto importante. È incredibile come il poter dire “sì, l’ho visto anche io” oppure “io li conosco tutti per nome” rappresenti per molti cacciatori un tentativo di essere ammesso nella schiera degli eletti.
Intendiamoci: le leggende, i miti, i racconti coloriti e molto spesso ritoccati dalla fantasia sono parte integrante del nostro mondo di cacciatori. Senza la possibilità di immaginare, di concretizzare l’animale dei nostri sogni, la caccia avrebbe molto meno fascino.
Come al solito sono andato fuori tema. Non è di questo che voglio parlare adesso. Lasciamo gli animali leggendari scorrazzare nelle montagne della fantasia e occupiamoci di caprioli in carne e ossa (e di palchi).
Lo strano legame tra preda e cacciatore
Andare a cercare “quel” capriolo e non “un” capriolo è una discriminante che aggiunge alla caccia quell’impalpabile ma determinante sensazione di essere dentro l’azione e di non viverla solamente da spettatore. Un capriolo lo possiamo trovare in qualsiasi prato, ma “quel” capriolo sappiamo che esce solamente in quell’angolo di bosco, in quella radura segreta che entra pian piano a far parte della nostra vita.
È veramente uno strano legame quello che unisce il cacciatore alla sua probabile preda, a maggior ragione quando questa preda non ha più dei contorni sfumati, un’identità anonima, ma una connotazione e un aspetto ben precisi (a volte, come nel caso del capriolo protagonista di queste pagine, gli è stato persino attribuito un nome proprio).
Il desiderio di possesso, che passa inevitabilmente attraverso l’estinzione di una vita che ci ha fatto gioire ed emozionare durante i ripetuti e ricercati incontri, è forse la componente della nostra passione più difficile da spiegare. A volte anche a noi stessi. A quel capriolo attribuiremo un carattere e una personalità particolari stravolgendo, con la nostra interpretazione antropizzante, comportamenti e abitudini dettati dall’istinto.
Ma questo fa parte del gioco ed è uno dei giochi più belli. Il colpo di carabina diventa quasi un tradimento, ma anche questa affermazione non è veritiera: non c’è stato in precedenza nessun patto. Il capriolo ha sempre cercato di evitare gli incontri cui noi abbiamo attribuito una valenza che non rientra in un naturale confronto fra preda e predatore.
Per il capriolo non fa alcuna differenza venire ucciso da una nostra palla, che così lungamente abbiamo atteso di tirare e che conclude un lungo cerchio iniziato con il primo avvistamento, piuttosto che dalla 22 di un bracconiere. Lui combatte, con tutti i mezzi che gli ha fornito la natura, per la propria sopravvivenza. Noi, invece, abbiamo bisogno anche della sua vita per perpetuare un rito antico, per consolidare la fiducia che riponiamo in noi stessi e nelle nostre capacità, ma ancor più per accumulare nel cuore sufficienti ricordi ed emozioni che ci salveranno dalla disperazione quando a caccia potremo solo più andare con la mente, attraverso i sentieri dei ricordi.
La scoperta del Montefeltro
Un incontro fortuito, consumato qualche anno fa nel turbinio di una domenica pomeriggio trascorsa dentro i padiglioni di fiera dedicata alla caccia, mi porta a scoprire una realtà venatoria italiana fino ad allora a me completamente sconosciuta: l’Appennino marchigiano, le terre dell’Urbinate. Ma non solo. Negli occhi di Giovanni, il mio giovane mentore, leggo una passione bruciante almeno quanto la mia. Anche le poche parole che riusciamo frettolosamente a scambiare confermano l’impressione a pelle. Certo che verrò a conoscere i tuoi posti, a vedere quelli che tu chiami i “miei caprioli”, perché dai tuoi occhi traspare quell’amore, quella coinvolgente necessità di condividere con qualcuno una cosa troppo bella e grande da tenere tutta dentro di sé.
Nella nostra vita di cacciatori vagabondi conosciamo un sacco di gente, che rimane tale anche se veste come noi e come noi (ma forse non esattamente come noi) va in giro con uno schioppo in mano. Poi per fortuna con qualcuno scatta quella molla, collegata con l’istinto, che ti fa capire di essere veramente al cospetto di un tuo consimile. Intendiamoci bene: con queste parole non voglio fare una classificazione, una graduatoria fra cacciatori.
Il fatto di interpretare la caccia nello stesso modo non vuole dire che sia il modo giusto. Non ho mai posseduto questa presunzione. Semplicemente la sovrapposizione delle scale di valori (etici, morali, venatori, umani) semplifica di molto il normale iter della nascita di un’amicizia davvero importante. E questo, salvo spiacevoli incidenti di percorso che man mano che passano gli anni diventano sempre più rari, si capisce dal primo sguardo, dalle prime parole, dai codici di accesso rispettati.
Giovanni, oltre a essere diventato uno dei miei più cari amici e forse il migliore fra i miei compagni di caccia, è una delle poche persone veramente pure (nel senso più completo e profondo) che io conosca. Forse l’unico. Intransigente e rompicoglioni, abitudinario e integralista, ma uomo vero e schietto, che paga sulla propria pelle con il proprio sangue tutte le sue scelte, il più delle volte decisamente impopolari e controcorrente, in una regione che sta muovendo i primi passi (ma sono da subito stati i passi giusti) verso la gestione dello straordinario patrimonio di ungulati, in particolar modo di caprioli, che in pochi anni si è trovata ad avere.
In attesa dell’anomalo
Così, ascoltando l’istinto, mi ritrovo con il binocolo in mano e il lungo sul cavalletto ad aspettare che l’anomalo faccia la sua comparsa nella conca.
Siamo circa alla metà di luglio e l’occasione per venire nell’Urbinate mi è stata offerta dalla partecipazione alla mostra dei trofei di Carpegna, manifestazione che anno dopo anno ha assunto sempre maggior importanza grazie all’ospitalità di questa splendida gente, ma grazie anche e soprattutto alla qualità dei relatori invitati per l’occasione e impegnati nelle conferenze in programma riguardanti la gestione territoriale e faunistica.
Il maschio anomalo non si fa vedere. Siamo affacciati su una grande conca, larga circa trecento metri e profonda altrettanti, con un avvallamento centrale un po’ più marcato, segnato da un basso cespugliato. Il limite inferiore del vallone è disegnato da un fitto intrico di macchia impenetrabile, sul cui fondo scorre un fosso d’acqua. Un bosco un po’ meno fitto, composto da piante di alto fusto con un sottobosco abbastanza pulito, contorna su entrambi i lati la grande conca coltivata a erba medica. Per un capriolo c’è tutto l’occorrente: ottimo pascolo, tranquillità, acqua e rimesse impenetrabili.
I binocoli cercano fin oltre buio, ma a parte due giovani maschietti e due femmine accompagnate dalla giocosa coppia di piccoli, non vi è traccia dell’anomalo.
Giovanni si conferma quello che avevo intuito che fosse: innamorato pazzo della sua terra e dei suoi animali, con una grande conoscenza unita a un’umiltà che identifica, senza alcun dubbio, una persona con grandi margini di miglioramento.
Mi fa vedere le foto dell’anomalo scattate a marzo, con il trofeo appena pulito dal velluto. Il palco destro è normale, a tre punte, di una ventina di centimetri di altezza. Il sinistro si biforca in due stanghe (non si capisce se si tratta di una stanga sovrannumeraria o se c’è un’origine ossea comune): una partendo dalla rosa si innalza in avanti arcuandosi, l’altra è molto inclinata all’indietro e termina con una forca, il cui ramo anteriore è molto spesso e lungo, e disegna una doppia curva molto armoniosa. Fra le due rose e alla base della stanga anteriore si intravedono delle punte che rendono il trofeo veramente molto interessante. A una valutazione basata sull’aspetto fisico non sembra un capriolo vecchio; verosimilmente si tratta di un becco di cinque-sei anni, che ha subìto un trauma in velluto.
Giovanni ha battezzato questo capriolo con il mio nome, Danilo, legandomi a lui in modo indissolubile e quasi imbarazzante, caricando la caccia che andrò a vivere di significati e di responsabilità che prevaricano di molto il normale rapporto cacciatore-preda.
Le tre settimane circa che ci separano dall’apertura della caccia diventano un resoconto giornaliero tra me e Giovanni dei vari avvistamenti. E intanto la febbre cresce. Cresce a dismisura e mi stupisco con me stesso di questa ansia, di questa emozione che aumenta ogni volta che penso al mio ineluttabile appuntamento. Finalmente arriva il momento di mettere la carabina in macchia e di partire.
Tre colpi consecutivi: sbagliato
Sono qui sdraiato accanto a Giovanni che mi ha appena visto sbagliare con tre colpi consecutivi lo splendido anomalo. Il suo sguardo è un condensato di differenti emozioni: stupore, incazzatura, delusione e molto altro ancora. Sono così avvilito e imbarazzato che per un bel po’ non riesco nemmeno a parlare. È la sera dell’apertura.
Il mattino, alle prime luci dell’alba, abbiamo visto da lontano il maschio coricato a bordo bosco, al margine inferiore destro della conca e vista la distanza e la regolarità con cui il capriolo ha rispettato gli appuntamenti giornalieri (mattutino e serale), abbiamo deciso di non disturbarlo e di aspettare la sera.
Giovanni ha preparato un piccolo riparo a ridosso di un palo della luce, più o meno al centro della conca. Il terreno è molto inclinato e pur impilando gli zaini non riesco a creare un angolo sufficiente per poter sparare con una buona stabilità da sdraiato. Decido così di appostarmi sul bordo alto della conca, sulla destra, sopra la lingua di prato dove, al mattino, era sdraiato il becco. Le distanze inevitabilmente si allungano, ma la posizione di tiro è da manuale (arrogante e presuntuoso che sono; quante volte ho poi avuto modo di rimpiangere questa stupida decisione).
Il maschio, dopo un’oretta di attesa, esce dal bosco di fronte a noi, un po’ più in basso rispetto alla nostra posizione (a meno di cento metri dal palo della luce…). Entra nella medica per una ventina di metri e si ferma tranquillo a pascolare. È nella parte della conca ancora illuminata dal sole e il suo trofeo così particolare luccica sotto i raggi radenti. Spettacolo magnifico ed emozionante, la realizzazione di ciò che attendevo con ansia crescente da quasi cinque mesi!
Ho tutto il tempo che voglio, ma mi sento tranquillo e quindi mi preparo subito per tirare. Ho una grande fiducia nell’arma appoggiata allo zaino (il mio 6,5×55 Mag con cui ho preso veramente molti animali).
Al primo colpo il capriolo nemmeno si muove. Poi, dopo alcuni secondi di immobilità, parte con il tipico piccolo passo di un animale che non ha capito esattamente quello che sta succedendo, tagliando in diagonale la conca e dirigendosi sotto di noi, verso l’entrata usata al mattino. Il secondo colpo parte allo stop effettuato a metà circa del percorso e ottiene lo stesso risultato del primo. Adesso il becco corre deciso verso la rimessa, ma mi offre un’ultima possibilità, fermandosi ancora un istante. Sul colpo, tirato quasi in verticale sotto di me, il capriolo fa un piccolo scarto in salita, poi con quattro salti si imbuca. Dalla sua comparsa è passata una manciata di secondi ma, come spesso succede in queste situazioni, le percezioni, dilatate dall’adrenalina, sconvolgono il normale corso del tempo. Sembrano passati secoli.
Non riesco a sostenere lo sguardo di Giovi. Sono veramente mortificato e avvilito. Entrambi abbiamo visto lo scarto effettuato dal capriolo sull’ultima palla e la preoccupazione che sia stato toccato prevarica in questo momento qualsiasi altra considerazione. Perdiamo più di due ore a controllare prima da soli, poi con l’ausilio di Astor, i dintorni dell’anschuss. In questo angolo di prato la medica è molto rada: non sembra in grado di nascondere indizi. Non troviamo assolutamente nulla. Il cane effettua il tragitto dall’anschuss fino al colatoio a bordo bosco almeno dieci volte, ma si vede che lavora su una normale passata. Almeno non l’ho ferito.
Decidiamo di comune accordo di non entrare nel bosco a cercare: il disturbo sarebbe troppo grande e vedremmo di molto assottigliate le speranze di un successivo incontro. Non accetto l’invito a cena dell’amico: ho troppe cose da mettere a posto dentro di me e da sempre solo la solitudine mi concede questo viaggio interiore.
Per tutti i successivi quattro giorni di caccia che mi ero programmato, trascorro, sempre più in apprensione, sia l’albeggio che il tramonto appostato al bordo della conca. L’anomalo sembra sparito. Cresce l’ansia e il sospetto di averlo ferito. Giovanni non ha cambiato il suo atteggiamento nei miei confronti.
Dopo la prima ora del mattino, passata ad aspettare il “mio” becco, giriamo molto in questi boschi meravigliosi, cacciando alla cerca e al fischio. Prendiamo qualche buon maschio e abbiamo modo di consolidare la fiducia reciproca che sul terreno di caccia è una discriminante fondamentale. Ma inevitabilmente i pensieri sono quasi sempre occupati dalla preoccupazione per le sorti dell’anomalo.
Giovi si comporta con molto tatto; non mi ha mai chiesto “come mai lo hai sbagliato”, perché sa bene che non sarei in grado di rispondere. La caccia è anche questo: cose che non si possono spiegare, imprevisti che trascendono l’esperienza e la preparazione specifica. E questa imponderabilità fa parte della sua magia e anche della sua crudeltà.
L’ultimo pomeriggio della mia permanenza nelle assolate terre del Montefeltro lo passiamo a scandagliare meticolosamente il bosco dove è sparito l’anomalo. Il terreno è terribilmente sporco, in particolare in prossimità dell’acqua, ma sono oramai passati cinque giorni dal mattino del fattaccio e viste le temperature molto alte, se il capriolo fosse morto dovremmo sentirlo a naso. Alziamo dal fitto un paio di animali che non riusciamo a riconoscere. Si consolida la speranza che il maschio sia stato solo sfiorato dalla palla e che adesso consumi la sua stagione degli amori nel fitto del bosco, al riparo da sguardi indiscreti e attenzioni eccessive…
Parto con molta malinconia, dipesa in gran parte dall’incertezza sulle sorti dell’animale, ma anche e soprattutto dal dispiacere di lasciare questi posti e questi amici. Ci sono luoghi e persone che ti entrano in profondità, che vanno a occupare uno spazio importante, un tassello vitale.
Il ritorno
Intanto questo agosto dalle temperature sahariane trascorre senza altri intoppi. Un po’ di montagna, un po’ di mare con Federico, il mio cucciolo di uomo, ma non nascondo a nessuno che a ogni squillo del cellulare la speranza di veder comparire il nome di Giovanni sul display è sempre molto alta.
E finalmente la telefonata giusta arriva. L’anomalo è uscito di sera in un piccolo prato posto più a valle rispetto alla grande conca. Pur essendo oramai quasi notte, Giovi non ha avuto nessuna difficoltà a riconoscere il particolare trofeo. La telefonata assume i toni di una festa gioiosa perché è veramente tanto il nostro sollievo dopo quasi un mese di forte preoccupazione. Lo so bene che questo atteggiamento, a fronte delle cose terribili che accadono quotidianamente in questo mondo così violento e spietato, sembra eccessivo. Ma la sensibilità nei confronti di fatti ben più gravi viene amplificata e certamente non sminuita dalle nostre piccole sofferenze giornaliere.
Dopo due giorni sono di nuovo ospite dello splendido agriturismo dell’amico Alfredo, che gestisce con amore e con attenzione quasi maniacale anche nei più piccoli particolari, così come con la stessa cura si occupa del suo ristorante sito nel centro di Urbania.
Siamo oramai alla fine di agosto e i vecchi becchi di capriolo cercano riposo e tranquillità rintanandosi nelle rimesse più fitte, dopo la bagarre del periodo degli amori. Meno probabile, quindi, sorprendere i maschi in zone aperte, ma per noi è doveroso provarci.
Il primo giorno di caccia così come l’albeggio successivo trascorrono senza l’emozione dello sperato incontro. Abbiamo preparato un riparo sul bordo del piccolo prato triangolare dove Giovi ha visto l’anomalo, che dista dalla grande conca un centinaio di metri occupati da bosco fitto. Ci alterniamo sui due appostamenti nella speranza che l’animale faccia la sua comparsa.
Vediamo molti caprioli. In particolare la sera del primo giorno mi trovo attorniato da sette animali: due femmine accompagnate dalla coppia di piccoli, una sottile, un fusone e un maschietto di due-tre anni. Veramente incredibile la quantità di animali che un terreno altamente vocato, in accoppiata a un regolamento gestionale corretto, è in grado di produrre.
È il pomeriggio del secondo giorno di caccia. Da più di un’ora sono piazzato nel riparo affacciato sul piccolo prato. Sono usciti dal bosco una femmina con i suoi due piccoli. Il sole è già tramontato dietro le morbide colline, disegnando i soliti, struggenti paesaggi. Il mio cellulare inizia a vibrare. Giovi mi invita a raggiungerlo velocemente. In cinque minuti sono da lui. Lo trovo sdraiato a terra con gli occhi incollati al lungo. Un maschio è uscito nei campi dall’altra parte del vallone, oltre il fosso. È girato di culo e non riusciamo a leggere il trofeo (oltretutto sia la distanza superiore ai cinquecento metri, sia la luce oramai scarsa non ci aiutano). Alza la testa un attimo. È lui.
Violenta scarica di adrenalina e poco tempo per decidere. Dopo una velocissima consultazione, parto di corsa in discesa. Tenterò di attraversare il fosso, nonché l’intricatissima macchia che lo bordeggia, per portarmi sotto alla posizione del capriolo che sembra abbia intenzione di rientrare nel fitto. Niente cane al seguito, né zaino: carabina (“la mamma” come, mutuando un simpatico termine usato dall’amico Renato, ho battezzato il mio 7×64), binocolo e via.
È una corsa contro il buio che oramai avvolge tutte le zone in ombra. Dopo dieci minuti sto litigando con la barriera di rovi e acacie. Con molta pelle in meno sulle braccia e un sacco di spine piantate dappertutto arrivo finalmente sull’altra sponda del fosso. Cerco di riprendere fiato e concentrazione, e mi incammino verso il bordo della conca successiva, in punta alla quale, un quarto d’ora prima, avevo lasciato il capriolo.
Mi affaccio con mille cautele. Pesto letteralmente una femmina che, bontà sua, si infila nel bosco di corsa senza abbaiare. Adesso la luce è veramente molto scarsa. Il binocolo si ferma un paio di volte su una macchia più scura proprio in centro alla stoppia. Ma non può essere un capriolo; troppo fermo e dalla morfologia che il cervello identifica come sconosciuta.
Sto per avanzare, oramai quasi convinto dell’ennesimo insuccesso, quando la macchia si muove impercettibilmente. Tuffo al cuore. È il maschio, messo di tre quarti, con la testa girata verso di me, quasi appoggiata sopra alla spalla. S’incammina piano in discesa, verso la sua rimessa, non convinto che quel movimento intuìto a filo bosco sia veramente una minaccia. Il fischio acuto lo sorprende. Poi il buio. La fiammata mi acceca per qualche secondo. Nella stoppia per alcuni secondi non si muove più nulla, poi vedo delle zampe che rotolano scomposte, seguendo la forte pendenza del terreno. Mi ritrovo a correre verso la mia preda, violando il normale protocollo.
Ultima preoccupazione: non lo trovo subito. Oramai è veramente buio e il fascio della pila scandaglia senza pace il terreno. Ecco una macchia più scura, mi avvicino con apprensione. È lui, infossato in una piccola depressione del terreno. Inutile descrivere il miscuglio di forti emozioni che mi attanaglia la gola. Chi ha vissuto questi momenti li conosce perfettamente. Accarezzo la testa, il trofeo dalla forma così strana e meravigliosa. Un grande regalo che la natura generosa e uno straordinario amico hanno avuto la delicatezza di donarmi.
© Danilo Liboi
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