È noto che in alcune popolazioni di cinghiali una figliata può avere più di un padre: uno studio francese ha cercato di capire meglio il fenomeno.
Chiunque conosce il cinghiale sa che si tratta di una specie sociale. La socialità è incentrata nel gruppo familiare, di solito due o tre femmine adulte imparentate tra loro insieme alla loro prole. I maschi hanno una tendenza alla vita gregaria via via meno pronunciata, da subadulti si allontanano dalla madre formando piccole bande e da adulti pienamente maturi fanno perlopiù vita solitaria, avvicinandosi al branco matrilineare solo per gli accoppiamenti. Quando i maschi adulti ricompaiono in prossimità dei branchi femminili in cerca di scrofe in estro, la tattica li spinge a competere aggressivamente tra loro e a tentare di monopolizzare tutti gli accoppiamenti. Che la competizione tra maschi per l’accesso alle femmine sia elevata tra i cinghiali ce lo dice anche il forte dimorfismo tra i sessi in termini di taglia e di armamenti: un maschio adulto maturo di 5-8 anni è estremamente grosso, con zanne evidenti e un robusto scudo dermico che difende la testa e i fianchi dai colpi degli avversari. Una simile disparità di dimensioni tra maschi e femmine è il risultato di centinaia di migliaia di anni di selezione sessuale, che ha portato al prevalere nei maschi di tratti fisici particolarmente adatti alla competizione. Se però l’uomo interferisce con la caccia producendo elevate pressioni venatorie, i primi a soccombere sono i cinghiali delle classi d’età meno frequenti, come appunto i maschi adulti pienamente maturi. Oggi è sempre più difficile osservare in natura l’inconfondibile sagoma di un maschio adulto dalle lunghe zanne e dalla grossa groppa, e anche nei carnieri dei cacciatori esemplari avanti negli anni sono diventati molto rari.
E se i maschi adulti maturi scompaiono?
Se però vengono a mancare proprio i maschi di maggior forza e dimensioni, l’accesso alle femmine in estro non è più il monopolio di pochi super-riproduttori ma può diventare un obiettivo percorribile anche per qualche maschio subadulto e soprattutto per gli adulti giovani. Essendo ancora impegnati nell’accrescimento corporeo, gli adulti giovani di 2-3 anni non hanno grandi dimensioni nè zanne vistose, ma possono comunque arrivare ad accoppiarsi. Così, già alcuni anni fa, studiosi di vari gruppi di ricerca avevano potuto documentare un fenomeno interessante. L’analisi genetica di paternità applicato ai feti delle nidiate di cinghiale ha permesso di provare che in alcuni casi le scrofe si erano accoppiate con più maschi e che quindi all’interno di una nidiata alcuni feti erano figli di un certo maschio e altri di un altro. Il fenomeno si è rivelato piuttosto raro in popolazioni protette o sottoposte a bassa pressione di caccia, mentre è risultato più diffuso nelle popolazioni oggetto di forte pressione venatoria e questo fa pensare che il fattore scatenante sia rappresentato, all’interno delle popolazioni più manipolate dall’uomo, dalla scarsità di esemplari maschi in grado per taglia e forze di monopolizzare gli accoppiamenti. Qualche maschio subadulto e i maschi adulti giovani non solo trovano pochi ostacoli riprodursi, ma in mancanza di grossi rischi tentano di accoppiarsi con parecchie femmine. Gli zoologi, che avevano sempre considerato il cinghiale una specie poliginica, cioè in cui pochissimi maschi cercano di accoppiarsi con tutte le femmine, hanno cominciato a descriverlo come specie promiscua, in cui un po’ tutti i maschi in età riproduttiva riescono ad accoppiarsi senza troppa competizione e in cui ciascuna femmina accetta di farsi coprire da più maschi.
Un’indagine francese a lungo termine
Lo studio più approfondito e più a lungo termine sul cinghiale si svolge da tempo in un’area sperimentale della Francia nord-orientale, a Châteauvillain-Arc-en-Barrois. Qui si studia su 10.000 ettari una popolazione sottoposta a forte pressione di caccia, in cui la probabilità di sopravvivere tra le femmine adulte è del 48% e dei maschi adulti del 23%: una scrofa su due e quattro verri su quattro sono destinati a morire ogni anno per la caccia.
Dall’analisi delle scrofe abbattuti si era da tempo potuto osservare che le femmine meno pesanti hanno figliate più piccole, cioè con un numero minore di feti, e che femmine più pesanti avevano nidiate più numerose, un fenomeno ben conosciuto da tempo. Ma quello che non si era mai notato altrove è che, mentre le scrofe più leggere tendono a produrre figliate con feti di dimensioni più o meno uguali tra loro, le scrofe più grosse producono nidiate con feti di peso e lunghezza differenti tra loro. Le differenze tra i feti sono già visibili a inizio gestazione ma si fanno via via più evidenti col procedere della gravidanza.
Differenze
Perchè mai le femmine nelle migliori condizioni di salute dovrebbero produrre nidiate con feti di dimensioni diverse? Che vantaggio ci sarebbe per una scrofa a partorire dei lattonzoli più grossi e altri più piccoli? Si potrebbe ipotizzare che mettere al mondo piccoli di taglia diversa dia modo a quella femmina di rispondere nel modo più saggio a condizioni ambientali che sono poco prevedibili, a zone caratterizzate da habitat con risorse molto variabili, più o meno abbondanti a seconda di stagione e annata: i lattonzoli di minori dimensioni e quindi meno esigenti potrebbero sopravvivere meglio in un periodo di scarsa produzione di fonti alimentari mentre striati più grandi potrebbero approfittare meglio di condizioni ottimali. Una possibile spiegazione di queste differenze potrebbe risiedere nella produzione di latte non uniforme in tutti i capezzoli: i piccoli appena nati andrebbero ad attaccarsi ai capezzoli secondo le proprie esigenze, con i più grandicelli alla ricerca delle fonti di maggiore quantità di latte.
Ma gli studiosi hanno avanzato anche altre ipotesi: la taglia dei diversi feti andrebbe diversificandosi fin dall’inizio dell’annidamento nelle corna uterine dove potrebbero esistere condizioni non perfettamente uguali per ciascun embrione in termini di apporti di sangue e di nutrienti a livello di placenta; esisterebbero quindi embrioni e feti più o meno fortunati a seconda della posizione in cui sono andati ad annidarsi le cellule uovo fecondate. Nel maiale domestico è stato per esempio dimostrato che i feti al centro del corno uterino sono più leggeri di quelli posti agli estremi. Qualcuno ha persino ipotizzato che potrebbe esistere una vera e propria competizione attiva tra feti per ricevere più risorse dalla madre, una specie di rivalità tra fratelli già in utero. Sempre nel maiale domestico si è ipotizzato che certi embrioni possano bloccare il rilascio di secrezioni uterine e sfavorire gli altri membri della figliata.
Esiste un’effetto paterno?
Ma fin da quando i ricercatori francesi avevano potuto dimostrare che molte nidiate erano il frutto del contributo di più maschi, cioè, come dicono gli specialisti, di paternità multiple, si era fatta strada l’ipotesi che proprio l’esistenza di più padri per figliata poteva essere all’origine della diversità nelle dimensioni dei feti all’interno della nidiata e che le femmine di maggiori dimensioni e successo riproduttivo cercassero volutamente di accoppiarsi con più di un maschio per diversificare maggiormente le dimensioni dei propri figli e quindi di massimizzare la loro sopravvivenza futura. Per fortuna gli studiosi francesi hanno tutti i mezzi per verificare se esiste davvero esiste un effetto paterno sulla diversità di dimensioni dei piccoli. Per farlo bisogna naturalmente intraprendere una grande indagine genetica per identificare i padri dei feti, possibile visto che la forte pressione di caccia consente di campionare molti esemplari ogni anno (scrofe, feti, verri): ed è quello che hanno fatto recentemente, conducendo l’analisi genetica di 136 madri e di molti feti, con 760 potenziali padri. Dallo studio sulla paternità di 116 nidiate si è arrivato a individuare 211 padri, con estremi di un solo padre per alcune e di addirittura sei per altre. Ciascun maschio risultato padre aveva contribuito a produrre in media tre diverse figliate. Si è quindi provato che, in assenza di maschi adulti maturi, non esiste più alcun monopolio degli accoppiamenti da parte di pochi e molti maschi possono tentare l’accesso alle femmine. Ma indagini statistiche sofisticate non sono riuscite a dimostrare alcun influsso dell’identità del padre sulle dimensioni dei feti: nessun maschio di caratteristiche particolari ha avuto figli tendenzialmente più piccoli o più grandi. Così come non è risultata alcuna relazione tra il numero di padri e la diversità all’interno della figliata. Gli scienziati hanno quindi respinto l’ipotesi suggestiva che il comportamento riproduttivo promiscuo di questa popolazione di cinghiali abbia potuto essere all’origine di questo strano fenomeno delle nidiate con piccoli di dimensione non uniforme.
Che conseguenze a lungo termine?
Resta un grande interrogativo: che cosa succederà – almeno in un futuro lontano- di tutte quelle popolazioni di cinghiale in cui è andata via via diminuendo la competizione tra maschi, in cui la riproduzione non è più l’esclusiva di alcuni maschi super-dotati? Se la selezione sessuale sarà meno forte, che cosa succederà a quelle caratteristiche fisiche che fanno di pochi super-esemplari degli animali fatti per trasmettere le migliori qualità alle generazioni successive? Che cosa succederà delle lunghe zanne, dei dorsi arcuati e muscolosi dei verri pienamente maturi? Andranno gradualmente sparendo? E più in genere, cosa succederà alla qualità della popolazione se a riprodursi saranno sistematicamente anche esemplari dalle caratteristiche mediocri? Andrà diminuendo il dimorfismo sessuale?
Bibliografia
Per approfondire si veda l’articolo di Gamelon M., Gayet T., Baubet E., Devillard S., Say L., Brandt S., Pélabon C. e Saeter B.E., 2018, “Does multiple paternity explain phenotypic variation among offspring in wild boar?”, in Behavioural Ecology 29: 904-909.