E’ la fine di marzo, sono le prime luci dell’alba, qui a Barceda, nell’Appennino Bolognese: è tempo di conteggi primaverili degli ungulati e da diverse postazioni coppie di censitori guardano con binocolo e cannocchiale verso i prati dove la prima erbetta nuova richiama dai boschi circostanti branchetti di daini, caprioli e cervi. Un gruppo familiare femminile con una vecchia cerva davanti alle altre si avventura nel mezzo di un pratone; dall’altro lato si muove un grosso cervo maschio con un palco vellutato in crescita, pascola velocemente e presto si sposta sull’altro versante, nel comune di Caste di Casio, dove altri censitori di un’altra zona di censimento stanno partecipando allo stesso conteggio generale.
Il rischio concreto è che entrambi i gruppi di censitori contino lo stesso cervo, che continua a muoversi e si sta spostando verso i boschi al confine col Pistoiese. È probabile che quel grosso cervo entri nel versante toscano nel primo pomeriggio, per poi dirigersi verso l’alto Pratese; e domani potrebbe salire su Monte Calvi, di nuovo sul lato bolognese dell’Appennino. Perché i cervi, in periodo di migrazione, si muovono molto, hanno un comportamento spaziale decisamente diverso da quello del daino o del capriolo, fanno grandi spostamenti.
Grande mobilità, grandi unità di gestione
È per questo che nel 1998, quando si cominciò a parlare concretamente di iniziare a gestire il cervo tra Toscana ed Emilia-Romagna, tra Firenze, Prato, Pistoia e Bologna, si immaginò di poter pianificare la gestione di tutta l’intera popolazione, di costruire un’unica vasta unità gestionale, un grande comprensorio unico interregionale, lasciando peraltro interdetti parecchi funzionari di due Regioni e di quattro Province. Quel cervo in velluto che al mattino presto pascolava vicino a Camugnano, nel primo pomeriggio si riposava al Monte di Badi e nel tardo pomeriggio si spostava a brucare nei boschi intorno a Treppio sul lato toscano, e si muoveva con naturalezza sui due versanti senza conoscere confini amministrativi, è patrimonio di tutti. Nacque così nel 2000 il primo comprensorio interregionale Acate, oggi conosciuto come Acater centrale, che includeva tutto l’areale di distribuzione del cervo sui due versanti dell’Appennino tosco-emiliano, attraverso censimenti coordinati svolti in contemporanea e un unico piano di prelievo suddiviso poi tra distretti e zone di caccia. E tutto perché il cervo si muove molto e senza conoscere confini. Costruire un’unica vasta unità di gestione fu in Italia una decisione rivoluzionaria, che metteva in discussione campanilismi e pigrizie locali; comunque un’iniziativa controcorrente perché molte amministrazioni pubbliche italiane in ambito alpino in quegli anni continuavano ad appoggiarsi alle vecchie riserve comunali, che per dimensioni erano adatte a gestire il capriolo, specie legata a piccoli spazi vitali, ma non certo il cervo.
I primi studi sul comportamento spaziale
Va detto che il cervo vent’anni fa era ancora una specie poco conosciuta, soprattutto per quanto riguarda il cosiddetto comportamento spaziale cioè i suoi movimenti stagionali e annuali. I primi studi con radiocollari furono effettuati nelle basse montagne bavaresi, in situazione di grande artificialità, dove gran parte dei cervi viene chiusa in inverno in ampie aree recintate e in cui si usa a piene mani il foraggiamento artificiale, che tende a trattenere i cervi in certe aree lontane dai fondovalle antropizzati e agricoli. È chiaro che quei primi dati tedeschi sugli spazi vitali, appena 1-4 chilometri quadrati, fossero viziati da condizioni innaturali: volenti o nolenti i cervi bavaresi non si rendevano protagonisti di grandi spostamenti. Ma quando più tardi, tra il 1995 e il 1999, il gruppo di ricerca di Marco Apollonio, sia pure con fondi limitati e con campioni abbastanza ristretti di animali radiocollarati (5-10 animali per area), si mise a studiare gli spazi vitali dei cervi in due zone delle Alpi, si poté dimostrare che, almeno in ambiente montano, senza foraggiamento artificiale (Val di Susa in Piemonte), gli spazi vitali sono ampi (circa 15- 35 chilometri quadrati) e una parte della popolazione compie vere e proprie migrazioni stagionali in primavera e autunno per utilizzare in estate le porzioni alte delle montagne e per rifugiarsi nei fondovalle in inverno, con i centri degli spazi vitali estivi e invernali distanti in media 10 chilometri quadrati.
Gli studi pionieristici degli svizzeri
Non si trattava in realtà di una vera e propria nuova scoperta, ma di una conferma di studi precedenti svolti in Svizzera molti anni prima. Nel Parco nazionale dell’Engadina parecchi anni prima, quando ancora in Europa non si usavano i radiocollari, ossia tra il 1975 e il 1977, erano stati catturati, dotati di marcature auricolari colorate e liberati 450 cervi; erano stati coinvolti anche i cacciatori svizzeri e italiani delle aree confinanti perché in caso di abbattimento o di avvistamento di esemplari marcati venissero informate le autorità del parco. Il quadro che i ricercatori svizzeri ricostruirono era interessante e complesso: all’interno della stessa popolazione, talvolta tra gli animali catturati nella stessa valle, convivevano almeno due diverse tattiche. Alcuni cervi adulti erano sedentari e, sebbene in estate si spostassero un po’ più in alto e in inverno un po’ più in basso, avevano spazi vitali stagionali più o meno sovrapposti. Alcuni cervi invece avevano spazi vitali estivi e invernali distinti, talvolta spostandosi tra due valli montane adiacenti, talvolta intraprendendo spostamenti più lunghi. Infine i ricercatori videro come diversi esemplari giovani e subadulti non tornavano più all’interno del Parco, ma si disperdevano talvolta anche in provincia di Bolzano. Il fatto che fossero presenti almeno due tattiche di spostamento tra gli adulti (residenti e migratori di breve o lunga distanza) significava che entrambe avevano qualche vantaggio, insieme anche a rischi o a svantaggi. E due modalità di movimento, cervi sedentari e migratori, erano state trovate dai ricercatori ungheresi anche nelle piatte pianure della Pannonia, dove una parte degli animali restava tutto l’anno nella foresta e il resto viveva in foresta durante l’inverno e spostava il suo centro di attività nelle aree agricole circostanti nel periodo di crescita vegetativa.
E i ricercatori norvegesi, oltre a notare gli spostamenti altitudinali tra le aree di estivazione in cima alle basse montagne e quelle di svernamento nei fondovalle, avevano descritto spostamenti dalle aree costiere alle aree interne: i maschi migratori si spostavano in media di 30 chilometri e le femmine migratrici di 20 chilometri, con massimi rispettivamente di 100 e di 75 chilometri. Ma non tutte le popolazioni di cervo contemplano la possibilità di migrare: nella foresta primigenia di Bialowieza, nelle pianure tra Polonia e Bielorussia, le condizioni ambientali, la compresenza di tanti micro-habitat e di abbondanti risorse alimentari permettono agli animali di essere tutto l’anno sedentari.
La ricerca in Trentino
Uno studio svolto dal gruppo di ricerca di Sandro Lovari (Università di Siena) nelle Alpi trentine (Val Travignolo nel Parco di Paneveggio e Bellamonte) tra il 2003 e il 2007 e sostenuto economicamente anche dall’Associazione Cacciatori Trentini permise di capire meglio i due diversi tipi di mobilità del cervo in ambiente montano. Avendo munito di radiocollare 41 esemplari, si poté scoprire che il 51% delle femmine e il 13% dei maschi conducevano una vita sedentaria, in cui gli spazi vitali stagionali tendevano in gran parte a sovrapporsi, mentre di conseguenza il 49% delle femmine e ben l’87% dei maschi preferiva fare la spola tra uno spazio vitale invernale e uno estivo ben distanziati, con medie di circa 8 chilometri in linea d’aria tra i centri d’attività estivo e invernale e un record di 31 chilometri. In realtà i cervi migratori avevano spesso spazi vitali ben distinti sia in estate, sia in autunno sia in inverno. L’inizio della migrazione primaverile a partire dai quartieri di svernamento aveva luogo per le femmine in media tra il 12 e il 26 maggio, pochi giorni prima del parto, e per i maschi tra il 23 aprile e il 19 maggio; lo spostamento nei quartieri degli amori avveniva tra fine agosto e inizi settembre e la vera e propria migrazione autunnale verso i quartieri di svernamento cominciava a fine ottobre – inizio novembre. A differenza di quanto documentato in Val di Susa o in Norvegia, i cervi migratori trentini avevano spesso quartieri invernali a maggiore altitudine che quelli estivi. Che cosa spingeva quei cervi migratori, maschi e femmine, a muoversi su distanze medie e medio-grandi ogni anno invece di restare fermi in un unico centro di attività? E cosa spingeva invece i cervi residenti a non spostarsi affatto?
Vantaggi e costi di una scelta o dell’altra
Ogni scelta è un compromesso tra vantaggi e rischi, e muoversi può essere rischioso, difficile: si può rischiare di morire per un incidente con un’auto attraversando qualche strada, si può rischiare di venire abbattuti in un’area cacciabile; ma la ricompensa in termini di ricchezza di risorse alimentari (ambienti più diversificati e quindi più produttivi) potrebbe in qualche modo premiare chi adotta la tattica migratoria. Gli animali che restano tutto l’anno dentro il Parco di Paneveggio da una parte vivono una vita più riparata e protetta, e dall’altra sono costretti a frequentare un ambiente più povero, una monotona foresta di abete bianco con scarso sottobosco. Scegliere di vivere in modo continuativo, anno dopo anno, in una foresta di conifere, in un ambiente poco produttivo, può avere conseguenze particolarmente visibili tra le femmine: mentre gran parte delle cerve migratrici trentine era vista in estate accompagnata dal proprio cerbiatto, tra le residenti il successo riproduttivo sembrava essere meno sicuro. Ma è anche vero che un animale di grande esperienza, che da anni conosce quel bosco in ogni suo angolo, può ricavare da un ambiente apparentemente modesto molte più risorse di altri. In entrambe le modalità di comportamento spaziale esiste qualche vantaggio che l’altra non ha e nessuna delle due è realmente superiore all’altra. Infine era interessante il fatto che, se si sovrapponevano tutti gli spazi vitali dei 41 esemplari seguiti col radiocollare, e quindi di una porzione limitata di una popolazione di cervi, si copriva comunque un’area totale di circa 860 chilometri quadrati, una superficie vastissima, a dimostrazione di quanto sia importante pianificare la gestione delle popolazioni di cervo sempre su larga scala. Resta da capire quale sia il meccanismo che in Trentino spinge i cervi a iniziare la migrazione: mentre infatti in Valle di Susa era chiaro che gli spostamenti verso i fondovalle erano in qualche modo sollecitati dalle prime nevicate autunnali e gli spostamenti primaverili verso i quartieri estivi erano provocati dalla fine dell’innevamento e dal disgelo, qui i tempi non tornano del tutto, visto che la migrazione autunnale precede le prime nevi e quella primaverile è tardiva rispetto al disgelo. Insomma, c’è ancora molto da scoprire.