Tra le zoonosi la rabbia è la più temibile, visto che non è curabile. L’unico modo per difendersi è riconoscere le situazioni di rischio e ricorrere in tempo ai trattamenti medici.
È una delle malattie infettive più conosciute e temute fin dall’antichità, nota per la sua tragica incurabilità che purtroppo ha conservato nei secoli fino a oggi: la rabbia (è una zoonosi, cioè una malattia trasmessa all’uomo dagli animali, come toxoplasmosi e brucellosi) è causata dal rabdovirus, virus in grado di contagiare tutti i mammiferi e che una volta manifestatosi nel soggetto colpito ne causa la morte nel 100% dei casi.
Serbatoi, trasmissione e sintomi della rabbia
Il virus della rabbia può potenzialmente contagiare tutti i mammiferi (pipistrelli, volpi, cani, gatti). Dal punto di vista epidemiologico la volpe rappresenta il serbatoio della forma silvestre, il cane della forma urbana. A favorire la diffusione del virus, di fatto inoculando saliva infetta nella cute e nelle mucose, sono infatti le specie dotate di apparato dentario capace di infiggere morsi profondi. Gli esseri umani non contagiano i propri simili, soprattutto perché difficilmente tendono a mordere anche quando sono nello stadio terminale della malattia.
Nell’organismo dunque il virus penetra con un morso profondo: la saliva infetta penetra nei tessuti, e da lì il virus attacca le terminazioni nervose. L’organo bersaglio del virus è il cervello: qui il virus sopraggiunge procedendo lungo i nervi dalla periferia in senso centripeto alla velocità di uno-due centimetri al giorno. Pertanto più la carica virale nella saliva del morso è alta, più il morso è rilasciato in prossimità del cervello e più rapide saranno la progressione del virus e l’insorgenza della malattia.
Frequente la forma furiosa
Il periodo di latenza tra il contagio (morso) e i sintomi può variare da due-tre giorni fino a un anno. Una volta raggiunto il cervello, il virus prosegue lungo i nervi cranici nelle ghiandole salivari, ove si moltiplica e va a infettare la saliva della vittima, rendendola a sua volta fonte di ulteriori contagi attraverso i morsi.
Solo una piccola percentuale di soggetti (20%) manifesta una forma paralitica, con paralisi dei muscoli (inizialmente quelli preposti alla fonazione e alla deglutizione), modifica del tono della voce e scolo di saliva dalla bocca. La paralisi procede in senso ascendente dagli arti inferiori fino al tronco, portando il soggetto all’arresto respiratorio.
La maggior parte delle volte la rabbia si manifesta nella forma furiosa (80%) con alterazione del comportamento, che risulta iperattivo, aggressivo, agitato. Il soggetto presenta spesso scolo di saliva ai lati della bocca per la difficoltà a coordinare la deglutizione, Negli animali è forte la tendenza a essere mordaci: anche le specie generalmente elusive attaccano e avvicinano gli esseri umani. Tipica è anche l’idrofobia, il terrore suscitato dai liquidi e quindi la repulsione verso il bere.
Nessuna cura
Purtroppo ancora oggi la rabbia, una volta conclamata, è una malattia letale; nessuno sopravvive. Nel mondo si registrano tra i 50.000 e i 60.000 morti ogni anno. In Italia attualmente è considerata debellata; ma, alla luce della mobilità di fauna per commercio e turismo, il rischio non può affatto considerarsi azzerato.
L’unica possibilità di limitare la mortalità è rappresentata dalla profilassi a seguito di morsi da parte di animali sospetti o di cui non è noto lo stato vaccinale (selvatici, cani randagi): si procede all’inoculo tempestivo di una prima dose di vaccino e di immunoglobuline derivate da plasma umano. Le categorie lavorative a rischio (allevatori, speleologi, guardie forestali, guardie cinofile) sono sottoposte a vaccinazione preventiva con richiami periodici.
In caso di morsi da parte di animali a rischio la prima cosa da fare è detergere perfettamente la ferita lavandola bene in profondità e utilizzando disinfettanti ad azione lipolitica (sciolgono i capsidi del virione) a base di alcol o iodio. Come passaggio successivo è bene recarsi al pronto soccorso ove verrà valutata l’opportunità di un’immunizzazione attiva e passiva (vaccino più anticorpi iniettati nella cute intorno al morso o intramuscolo).
L’animale che ha inferto il morso andrebbe osservato per almeno dieci giorni, analizzando campioni biologici per verificare se sia o meno portatore del virus. In alcuni Paesi l’animale viene sacrificato per analizzarne il tessuto cerebrale.
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