Per quanto il long range shooting costituisca sicuramente un’ottima prestazione tecnica e sportiva, rappresenta anche un’azione di caccia gratificante per il cacciatore?
Il tiro a lunga distanza è ormai un argomento di dibattito quasi quotidiano, grazie anche all’avvento di social network e blog specializzati. A costo di essere impopolare, la posizione del sottoscritto è molto netta e dichiaratamente negativa. A mio parere un tiro corretto in azione di caccia difficilmente, se non solo in circostanze eccezionali, deve eccedere i trecento metri, almeno nelle condizioni ambientali medie della caccia in Italia.
Cerco sempre di evitare generalizzazioni immotivate, ma anche riflettendo a lungo sul tema, le argomentazioni a favore del long range shooting a caccia mi convincono assai poco.
Allenamento necessario
Certo, è vero che vi sono cacciatori che anche a breve distanza non hanno una padronanza della propria arma tale da ottenere risultati accettabili, ma ciò è una semplice realtà statistica che deve, semmai, incentivare per tutti l’allenamento in poligono e una migliore preparazione generale della nostra categoria.
Così come è assolutamente vero che, con gli strumenti e i materiali odierni, un tiratore preparato ed esperto può indubbiamente giungere ad abbattimenti puliti ed efficaci a distanze realmente rilevanti (600-700 metri) soprattutto su selvatici di dimensioni importanti, in primis il cervo, ottenendo quindi un prelievo etico e corretto ai fini gestionali.
Ma la domanda è un’altra. Un tiro di questo tipo, per quanto sicuramente costituisca un’ottima prestazione tecnica e sportiva, rappresenta anche un’azione di caccia gratificante per il cacciatore? Ognuno, nel proprio intimo, avrà la sua risposta, ma la mia è scontata.
Long range shooting: a chi giova?
Come mi diceva sempre un amico tanti anni fa, non stiamo facendo la guerra alla fauna. Nessun medico ci ordina di tornare a casa con un sacchetto di carne. Andiamo a caccia di animali che hanno affinato, nel corso dei millenni, strategie e sensi finalizzati alla sopravvivenza, che il cacciatore dovrebbe imparare a conoscere e, con l’aiuto dell’esperienza e anche della dea bendata, a superare per riuscire a incarnierare la propria preda.
Bypassare queste difese naturali con un tiro a distanze da cui nemmeno il selvatico più diffidente e schivo potrebbe lontanamente scorgerci o avvertirci è davvero ciò che vogliamo? È veramente un male perdere qualche uscita in più e subire qualche delusione per giungere alla fine, sottovento e in silenzio, a una distanza ragionevole dal nostro camoscio o dal nostro capriolo?
Senza contare l’indubbia difficoltà, a distanze come quelle citate, di leggere adeguatamente la reazione al colpo nel caso di abbattimento non istantaneo; con conseguenti complicazioni nel reperimento dell’anschüss e nell’eventuale ricerca di selvatici feriti.
Circostanze e casi limite
Nessuno ignora che ci possano essere circostanze o casi limite. Ma l’occasione di una stagione (magari all’ultimo minuto dell’ultimo giorno di caccia) può essere sfruttata anche con un tiro esasperato? Pure su questo ognuno ha la propria sensibilità, ma anche la propria responsabilità. L’importante è che non si tratti di comode autoassoluzioni.
Sento spesso dire che in certe zone e in certi contesti ambientali è obbligatorio tirare lungo a causa delle abitudini degli animali («Vanno via a cinquecento metri») o della conformazione del territorio («Laggiù non ci si può avvicinare di più»). Poi, all’analisi dei fatti, si scopre che il fantomatico avvicinamento impossibile consiste magari in un paio d’ore di più di cammino per attraversare una valle. Faticoso, certo, ma non inimmaginabile.
Oppure sento talvolta affermare che la fuga a distanze elevate è la conseguenza, e non certo la causa, dei tiri lunghi. Sento parlare di stambecchi asiatici tirabili solo a 600-700 metri. Come mai, allora, i nostri, non sottoposti a caccia da più di un secolo, sono così confidenti?
In definitiva, e qui chiudo le mie considerazioni, mi piace pensare che, seppure gli strumenti tecnici per abbattere un selvatico anche a mille metri esistono da tempo (basta acquistarli e imparare a usarli), ciò che serve per avvicinare un capriolo in bosco a venti metri non sia invece in vendita. È naturale quindi che l’estremo opposto, cioè un abbattimento a distanza quasi irrisoria, costituisca motivo di grande soddisfazione per il sottoscritto e molti altri cacciatori. Negli anni ho provato questa emozione diverse volte. L’ultima alla fine dello scorso autunno, nel pittoresco ma duro scenario delle basse Valli di Lanzo.
Camosci novembrini
Ormai, più che una piacevole abitudine, è quasi un rito. L’ultimo camoscio della stagione venatoria da cacciare nelle scabre pietraie che per prime si inerpicano dalla pianura torinese e regalano un immenso panorama verso le alte quote fino al confine francese.
Di solito, dopo il primo turno di caccia, il piano per i maschi è completato e così avviene anche quest’anno. Non importa. Ho richiesto e ottenuto la fascetta per un binello (jährling) e ho diverse uscite a disposizione per cercarlo in questo ambiente così particolare. Un camoscio è un camoscio, e senza ipocrisie ritengo che poter ottenere uno di questi splendidi animali prescinda da ogni questione di dimensioni, trofeo e punteggio.
Giulio, che mi accompagna sempre in queste occasioni, e che ha una bella baita nel cuore della zona di caccia, ha la fascetta per una femmina adulta, ovviamente non allattante. Ma oggi è un po’ perplesso: è passato spesso da queste parti ultimamente e ha visto pochi animali su questo versante, soprattutto per quanto riguarda femmine e giovani. La ricerca sarà probabilmente lunga.
Prima dell’alba
Siamo in postazione, ben prima dell’alba, su un ampio colle che spazia verso le Valli di Lanzo da un lato e la bassa Valle di Susa dall’altro. Appena fa grigio mettiamo mano ai binocoli. Effettivamente non c’è molto movimento: solo due grosse sagome che fanno la loro comparsa su un crinale roccioso, rivelandosi però maschi adulti in preda alle prime schermaglie ormonali.
Le previsioni meteo non sono ottimali, ma le prime precipitazioni sono previste per il pomeriggio, per cui dovremmo avere diverse ore di tempo clemente. A giorno fatto ci portiamo quindi sul sentiero che, con alcuni stretti tornanti, ci condurrà in cresta verso le valli adiacenti.
Da ora, ogni momento potrebbe essere quello buono. Il filo di cresta si snoda aprendo la visuale sulle immense pietraie sottostanti. Purtroppo, però, muoversi silenziosamente è davvero difficile. Oltre alle pietre in equilibrio precario, ci troviamo ad avanzare tra betulle e radi arbusti di ontano, in mezzo a un tappeto di foglie secche, risultato della prolungata siccità.
Facciamo comunque del nostro meglio e, giunti in un punto panoramico, ci mettiamo di nuovo in osservazione. La speranza è incrociare i camosci che, di prima mattina, dovrebbero risalire dalle zone più basse e maggiormente vegetate alle quote alte e più prodighe di erba.
Sono sempre in imbarazzo nell’individuare i selvatici in questo ambiente così ricco di chiaroscuri. E infatti è Giulio, alla fine, a tirar fuori i primi animali. In fondo ad alcuni canali di roccia, almeno cinque camosci mangiano tranquillamente. Una femmina col capretto, un altro animale, difficilmente leggibile ma comunque certamente adulto (potrebbe essere la femmina per Giulio), e due di taglia nettamente inferiore, che potrebbero effettivamente far pensare a binelli. Un’osservazione più accurata parrebbe confermarlo: sagome esili, trofeo molto modesto e sicuramente sotto le orecchie.
A cinquecento metri
La distanza è nettamente superiore alle mie capacità e alle mie convinzioni: quasi cinquecento metri. Dobbiamo trovare il modo di avvicinarci.
Al momento siamo in piena vista degli animali, che però sono assolutamente tranquilli. Conveniamo che, se riuscissimo di nuovo a portarci rapidamente sull’altro versante e percorrere la distanza che ci separa dietro la cresta, arriveremmo appena sopra i camosci.
Così facciamo. Il percorso, fuori sentiero e sempre in equilibrio sulle rocce, è tutt’altro che agevole, ma alla fine raggiungiamo un grosso sperone che avevamo individuato come riferimento a monte del branco. Ci affacciamo quindi nuovamente per verificare, sondando ogni metro con i binocoli. Ma riusciamo a individuare solo la femmina col piccolo. Gli altri sembrano scomparsi. Insistiamo, ma nulla da fare.
Anche sui rilievi più distanti non c’è ombra di camosci. Molto strano, perché comunque su queste basse montagne circola quasi sempre più di un branco. Ma tant’è. Ipotizziamo che qualche altro cacciatore o magari un lupo di passaggio (qui piuttosto frequenti) possano aver creato disturbo. Ormai abbiamo perlustrato gran parte delle zone che potevano rivelarsi buone. Il mattino è ormai avanzato, quindi decidiamo di scollettare per l’ennesima volta e dirigerci verso la baita per una breve pausa di riposo.
Nel discendere la pietraia, attraversiamo una zona che questa mattina avevamo già osservato da lontano senza esito, per cui non facciamo troppa attenzione all’itinerario e a essere silenziosi. Errore madornale. A metà della discesa, un rumore improvviso alla nostra sinistra ci fa sobbalzare. Due femmine di camoscio, ciascuna con il proprio capretto, appaiono di corsa da dietro alcune rocce, passano al galoppo a non più di cinque metri da noi e si buttano a precipizio verso valle!
L’inatteso regalo della montagna
Evidentemente erano coricate nei pressi e hanno percepito la nostra presenza, pur senza capire esattamente dove fossimo.
Ancora emozionati per l’incontro ravvicinato, rimaniamo immobili e in silenzio per almeno cinque minuti. È molto difficile che le due capre fossero sole. È molto più probabile che facessero parte di un branco ancora nei paraggi. Riprendiamo a muoverci verso valle, ma questa volta con molta attenzione, fermandoci a binocolare ogni dieci passi.
Giulio è qualche metro davanti a me quando, a occhio nudo, noto una piccola striscia nera che fa a pugni con la monotonia delle rocce. Riesco ad attirare la sua attenzione e mi butto a terra. Quando mi sporgo con attenzione sul piccolo crinale, il binocolo mi rivela la schiena di un camoscio, che alza la testa e si rivela essere un giovane maschio. Vicino a lui intravedo un altro animale, quindi con molta attenzione appoggio la carabina e cerco di inquadrarli, per il caso che si tratti di uno jährling. Ma l’appoggio è precario e fatico a tenere nell’ottica i camosci, che intravedo solo a tratti tra le rocce.
All’improvviso l’intero campo visivo è occupato da un’ombra bruna. Sulle prime penso di aver inquadrato una pietra davanti a me o di aver perso l’allineamento con la lente. Poi, con un brivido, mi accorgo che sto inquadrando il pelo di un animale.
Alzo lo sguardo e mi trovo faccia a faccia con un camoscio, spuntato a non più di venti metri da dietro le rocce. Guarda verso valle e non mi ha avvertito, complice il vento favorevole. Nell’ottica pare enorme per la distanza ravvicinatissima. Inquadro la testa, con due inequivocabili corna poco ganciate alte una decina di centimetri. Un binello femmina.
Il momento
Mi basta spostare l’arma di pochi centimetri; inserire lo stecher non avrebbe senso. Il suono tondo del 7×64 si spegne nel fondo valle e l’animale sparisce. Ma Giulio, che si è gustato la scena pochi metri dietro a me, ha visto che si è ribaltato sul posteriore. Non resisto e contravvengo alla regola di attendere qualche minuto. Pochi passi nella pietraia, un primo timore nel non trovare alcuna traccia, poi ecco il camoscio, crollato sul posto e celato in un profondo buco tra i massi.
Ancora incredulo, procedo al recupero, alla pulizia, alle foto di rito e infine al ritorno verso la baita, sotto un cielo ormai cupo che elargisce le prime gocce di pioggia.
Ci fermiamo ancora un paio di volte a binocolare, alla ricerca di una femmina per Giulio, ma senza esito (avrà maggior fortuna all’uscita successiva, con una buona capra asciutta). Il rientro è comunque all’insegna della grande soddisfazione per aver sfruttato, con un pizzico di fortuna, un’occasione più unica che rara. Weidmannsheil.
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