L’impatto del riscaldamento globale sul camoscio alpino e appenninico ha delle conseguenze dirette sulla sua gestione.
Per capire quale sia l’impatto del riscaldamento globale sul camoscio è utile ricordarsi che nel corso della sua lunga storia la Terra ha vissuto innumerevoli cambiamenti climatici. Anche se ci si concentra sugli ultimi 2.600.000 anni, tra periodi glaciali e interglaciali, stadi freddi e interstadi caldi si sono registrati più di 50 diversi cambiamenti. Si è trattato di fenomeni lenti, che per innescarsi impiegavano da qualche centinaio a qualche migliaio di anni. Ogni volta piante e animali dovevano confrontarsi con l’instaurarsi di condizioni climatiche diverse, facendo affidamento sulle proprie capacità di reazione e adattamento. E sia tra le piante sia tra gli animali esistevano specie più flessibili, più tolleranti e forme più esigenti, più specializzate.
Per le specie più adattabili i cambiamenti climatici erano passaggi relativamente facili da superare; per quelle più specializzate si trattava invece ogni volta di prove molto delicate. Alcune riuscivano a resistere trovando riparo in aree rifugio più vicine per caratteristiche ambientali alle proprie esigenze ecologiche. Per sopravvivere in Europa durante il periodo più freddo dell’ultima glaciazione, capriolo e cervo dovettero spostarsi nelle aree mediterranee con climi un po’ più miti. Altre specie meno plastiche e reattive erano invece destinate a contrarre drasticamente i propri areali e infine a estinguersi. Si pensi, sempre restando tra gli ungulati, alla fine del mammut e del rinoceronte lanoso o del cervo gigante.
Tutto normale, la storia della vita è un continuo susseguirsi di cambiamenti. Ciò che è diverso oggi con il riscaldamento globale che stiamo vivendo (e che abbiamo causato noi umani) è la rapidità del fenomeno. In poche decine di anni è già percepibile un innalzamento delle temperature su vasta scala. Gli organismi viventi devono trovare soluzioni per adattarsi alle nuove condizioni in tempi decisamente più brevi che in passato.
Gli ungulati di montagna e il riscaldamento
Tra le specie più sensibili ai cambiamenti climatici recenti ci sono quelle montane, sia tra le piante sia tra gli animali. E tra gli animali senza dubbio gli ungulati di montagna, come i camosci e lo stambecco in Europa, il bighorn e la capra delle nevi in Nord America o l’argali in Asia, sono messi a dura prova dal veloce innalzamento delle temperature. A prima vista il riscaldamento globale dovrebbe almeno in parte favorire degli erbivori montani. Un inverno meno rigido e più breve si traduce infatti in una stagione vegetativa più lunga e probabilmente in minori perdite durante i mesi freddi.
In realtà l’innalzamento termico ha conseguenze deleterie su primavera ed estate. Millenni di evoluzione hanno finito per far coincidere il picco delle nascite primaverili degli ungulati di montagna con la massima produzione di erbe tenere dopo il disgelo, piantine ad alto contenuto di nutrienti e a basso contenuto di fibre, un cibo particolarmente adatto per le madri impegnate nell’ultimo tratto della gestazione, nel parto e nella prima fase di allattamento, che richiedono elevate spese energetiche.
Effetti negativi in primavera ed estate
Ma con gli ultimi decenni questa sovrapproduzione di erbe giovani è andata anticipando e si è velocizzata, mentre la stagione delle nascite è rimasta immodificata. Le madri rischiano quindi di non avere a disposizione nel momento più delicato dell’anno tutte le fonti di proteine che avevano le generazioni precedenti. Non è quindi sufficiente avere una prolungata stagione di crescita vegetativa se poi le erbe disponibili diventano presto più fibrose e quindi meno nutrienti.
In estate poi le temperature possono diventare così elevate da diventare difficilmente sopportabili. Per animali montani il rischio di surriscaldamento si può tradurre nella ricerca di aree in ombra per sdraiarsi e regolare la propria temperatura. Ne deriva una diminuzione del tempo dedicato all’alimentazione, oppure nello spostamento verso maggiori altitudini; qua però l’estensione dei pascoli è minore e spesso anche la qualità delle piante è inferiore. In entrambi i casi un aumento delle temperature estive può avere conseguenze sul peso corporeo degli animali a inizio inverno, rendendoli quindi meno preparati ai possibili rigori del clima dei mesi più freddi. Due recenti studi italiani in modi diversi ci fanno conoscere l’impatto del riscaldamento globale sul camoscio alpino (Rupicapra rupicapra rupicapra) e appenninico (Rupicapra pyrenaica ornata).
L’impatto del riscaldamento globale sul camoscio: lo studio sulle Alpi trentine
La prima indagine è stata diretta da Marco Apollonio dell’Università di Sassari. Si è analizzato l’impatto del riscaldamento globale sul camoscio considerando i censimenti di camoscio alpino tra il 2001 e il 2015 nella parte sud-occidentale della provincia di Trento: sette distretti, 92 riserve comunali, 452 blocchi di conteggio estivo. In Trentino nel corso dell’ultimo secolo la temperatura media annua è cresciuta di 0,6 gradi (sembra poco ma non lo è); dalla fine degli anni Ottanta del XX secolo la durata della permanenza a terra della neve è diminuita, così come la profondità media della copertura nevosa. Uno studio precedente dello stesso gruppo di ricerca aveva già appurato come durante trent’anni di riscaldamento globale i giovani camosci di un anno avevano gradualmente diminuito il proprio peso corporeo e non solo per effetto dell’aumento della densità.
Indici di reclutamento
L’attenzione si è concentrata sull’andamento (15 anni) di due indici demografici ricavati dai censimenti estivi: il reclutamento iniziale (cioè il numero di piccoli per femmina) e il reclutamento netto (il numero di giovani di un anno per femmina, cioè il numero di ex piccoli che sopravvivono al loro primo inverno fino all’estate). Anno dopo anno, i due indici sono stati messi a confronto con l’andamento di diversi parametri ambientali e climatici, come le temperature estive e invernali, la lunghezza del periodo di crescita vegetativa, la produttività delle piante nelle praterie d’altitudine. Il rapporto piccoli-femmine, cioè il cosiddetto reclutamento iniziale, è risultato associato alle condizioni ambientali e climatiche vissute durante il periodo della gestazione e l’allattamento; è passato da da 75 camoscetti per cento femmine dei primi anni a 70 per 100 femmine negli ultimi.
La disponibilità di cibo durante il periodo dei parti e nell’annata precedente porta a un aumento o diminuzione del numero di piccoli contati in estate; dato che la produttività delle praterie a maggio-giugno (ma non a livello annuale) è andata diminuendo, anche il numero di piccoli è andato calando. Si può dire comunque che le madri hanno saputo far fronte al riscaldamento producendo un numero di piccoli comunque significativo anche negli anni più caldi.
Il punto debole? Le classi giovanili
Ma purtroppo non basta far nascere e svezzare i piccoli; devono infatti mangiare abbondantemente in estate e autunno, crescere bene, arrivare all’inizio dell’inverno in gran forma e avere le riserve di grasso per superare i mesi più freddi. E purtroppo le estati più calde, l’erba più coriacea, la necessità di dedicare più tempo a regolare la temperatura interna o a salire ad altitudini più elevate finiscono per incidere sull’accrescimento corporeo dei piccoli a fine autunno, con conseguenze sulla sopravvivenza invernale. Nei 15 anni analizzati, il rapporto giovani di un anno-femmine in estate (reclutamento netto) è passato da 56 camoscetti per cento femmine dei primi tempi a 39 per cento femmine degli ultimi tempi.
Questo indice è risultato associato negativamente alle temperature estive, all’estensione della copertura nevosa invernale e alla densità di popolazione. Più erano alte le temperature estive, più vaste le aree innevate in inverno e più alte le densità, e più diminuiva il reclutamento netto. L’indice è risultato associato positivamente con la produttività di tutta la stagione vegetativa precedente. Se i piccoli avevano comunque potuto mangiare quantità maggiori di erba prima dell’inverno, il reclutamento netto era leggermente maggiore. Purtroppo gli inverni non sono mai stati così miti da tamponare più di tanto la mortalità infantile.
Lo studio sul camoscio alpino ci permette di vedere che il principale punto debole è rappresentato non tanto dagli adulti (le femmine mantengono una forma fisica sufficiente a garantire sempre tassi di natalità abbastanza buoni) quanto dalle classi giovanili che rischiano di entrare nel loro primo inverno sottopeso e di essere soggette a maggiore mortalità nei mesi più freddi. In aree alpine aperte alla caccia bisognerebbe innanzitutto adeguare la formulazione dei piani di abbattimento alleggerendo prudenzialmente il prelievo sui giovani e più in genere monitorare sempre il reclutamento netto.
Quale futuro per il camoscio appenninico?
L’impatto del riscaldamento globale sul camoscio appenninico sembra decisamente più pesante. Innanzitutto si tratta di una sottospecie con pochi e piccoli nuclei nell’Appennino centrale, meno di 2.500 esemplari in tutto. I nuclei storici principali del Parco nazionale d’Abruzzo, in Alta Val di Rose e sul Monte Amaro, hanno subito negli ultimi quarant’anni un decremento rispettivamente del 70 e del 50%; la causa è l’aumentata mortalità invernale dei piccoli legata al deterioramento della qualità dei pascoli. Mentre i maschi hanno gusti alimentari abbastanza ampi, femmine e piccoli prediligono pascolare nelle praterie dominate dal trifoglio di Thal, una piantina particolarmente nutriente, un relitto glaciale sempre più raro perché sensibile al riscaldamento.
Con l’aiuto di dati satellitari e mezzi statistici sofisticati, un gruppo di ricerca dell’Università di Siena diretto da Sandro Lovari ha studiato che cosa sia successo tra il 1970 e il 2014 alle praterie d’altitudine sotto gli effetti dei cambiamenti climatici. In quarant’anni la temperatura primaverile tra i 1.700 e i 2.000 metri è cresciuta di ben 2°C; l’inizio della stagione vegetativa con la prima erbetta tenera è andata anticipando di ben 25 giorni, mentre il picco dei parti è rimasto invariato; il periodo di massima crescita vegetativa è andato accorciandosi; il periodo di senescenza dell’erba a fine estate si è andato allungando sopra i 2.000 metri.
Una prospettiva inquietante
Il camoscio alpino può in parte attenuare gli effetti del riscaldamento salendo di quota su montagne piuttosto alte; in Appennino centrale le montagne sono più basse e con pascoli sommitali meno estesi e quindi il camoscio appenninico è come imprigionato in una fascia altitudinale più ristretta e più esposto alle conseguenze dei cambiamenti.
Mettendo insieme i dati ambientali e climatici dal 1970 e quelli demografici raccolti sui camosci (mortalità infantile), gli studiosi hanno anche formulato delle previsioni per i prossimi cinquant’anni. Se le temperature continueranno a salire con la stessa tendenza osservata nei decenni passati e se le praterie a trifoglio continueranno a diminuire alla stessa velocità, gli scenari possibili prevedono un aumento della mortalità dei camoscetti compreso tra il 28 e il 95%, un’ipotesi quest’ultima che in pratica equivale alla quasi estinzione del camoscio appenninico da qui al 2070. Una prospettiva inquietante.
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