Lo studio genetico sul gallo forcello condotto da Ispra, Fondazione Edmund Mach e Uncza ci restituisce importanti informazioni per una corretta gestione venatoria della specie.
È storia vecchia ma più che mai attuale. È, infatti, alla fine degli anni Ottanta che fu avviato il Progetto Alpe, promosso da Uncza attraverso la propria Commissione tecnica avifauna, grazie al quale, per la prima volta, nelle varie province alpine è stata realizzata una ricerca approfondita sui galliformi alpini, censendone la presenza e mappando gli habitat. Il lavoro, pubblicato nel 1994, si proponeva come strumento indispensabile per la realizzazione dei piani faunistico-venatori e per promuovere interventi mirati di tutela delle specie e di gestione degli ambienti. Allora ci presentava una situazione di sostanziale stabilità, se pur a fronte della sensibile riduzione degli effettivi dagli anni del dopoguerra in poi.
Ben diversa, purtroppo, la situazione di questo prezioso patrimonio faunistico delle Alpi registrata un quarto di secolo dopo, sempre a seguito di indagini scientifiche condotte da Uncza. L’ultimo report complessivo pubblicato nel 2018, che elabora i dati raccolti nell’ultimo decennio sulla tipica alpina, ci consegna una situazione dell’avifauna alpina radicalmente mutata rispetto agli anni del primo dopoguerra, con la conseguenza più tangibile di una riduzione progressiva delle presenze.
Ridimensionamento drastico di tutte le specie
Un ridimensionamento in certi casi drastico dei contingenti che tocca tutte le specie, anche se per alcune (francolino e cedrone in primis) in maniera più sensibile che per altre. Un fenomeno che ha segnato praticamente tutto l’arco alpino, con alcune circoscritte eccezioni pur a fronte di habitat, forme gestionali e pratiche venatorie simili ad altri contesti segnati dal problema. A ulteriore riscontro di un fenomeno ancora poco capito, si evidenzia che sono interessate da calo numerico specie che occupano nicchie ecologiche diverse, dal cedrone abitante del bosco alla pernice bianca che occupa le praterie d’alta quota.
I risultati di studi condotti in campo scientifico, come anche quelli più modesti portati avanti dai volontari di Uncza, convengono nel non ritenere la caccia il fattore più significativo nel calo di presenza di tetraonidi e coturnici sulle Alpi italiane. Sicuramente più d’una sono le cause che, in sinergia, hanno concorso a questa perdita di patrimonio ecologico delle valli alpine. Dall’abbandono delle terre alte da parte dell’uomo e la conseguente evoluzione naturale in aree boscate dei prati e dei pascoli di origine antropica, all’innalzamento del limite superiore del bosco e al progressivo aumento della temperatura, unite sicuramente ad altre che ancora ci sfuggono.
Le indagini genetiche sul forcello per approfondire
Proprio per cercare di sondare meglio questa area oscura di conoscenza, Uncza ha sottoscritto nel 2012 con Ispra e Fem (Fondazione Edmund Mach) un protocollo di lavoro per integrare i metodi classici di conoscenza attraverso indagini genetiche, ritenute in questo contesto di grande vantaggio operando su piccole popolazioni isolate, localizzate ai margini dell’areale distributivo, nelle quali gli effetti della perdita di variabilità genetica sono notoriamente più marcati.
Il documento sottoscritto dai tre enti prevede la raccolta, secondo un protocollo standardizzato, di campioni di avifauna alpina provenienti sia da soggetti cacciati, sia da reperti rinvenuti sul territorio (penne, piume, fatte, resti di predazione).
Uncza effettua il campionamento attraverso i responsabili provinciali della propria Commissione tecnica Avifauna che coordinano gruppi di volontari a livello locale, Ispra e Fem sono invece preposti alla messa a punto dei protocolli di tipizzazione genetica e alla schedatura ed archiviazione (in appositi magazzini refrigerati di Fem) dei campioni per i successivi monitoraggi genetici.
Catalogati e archiviati più di 1.500 campioni
Dall’inizio della campagna di raccolta sono già stati catalogati e archiviati più di 1.500 campioni (piume, pelo, tessuto) appartenenti alle sei specie di tipica alpina presenti in territorio italiano. Ed è proprio su parte di questi campioni che si è basa la recente collaborazione tra Uncza e Fem avente come obiettivo la messa a punto di un protocollo innovativo idoneo all’acquisizione di nuovi dati applicabili alla gestione e alla conservazione del gallo forcello in territorio alpino italiano.
Questo perché gli effetti negativi dell’impoverimento genetico sulla fitness e sulle capacità di adattamento e sopravvivenza delle popolazioni naturali sono stati ormai ampiamente dimostrati. E di conseguenza le politiche di conservazione, di gestione o l’uso sostenibile delle risorse faunistiche di un territorio, soprattutto quelle soggette a forte sfruttamento (caccia, pesca, traslocazioni), non possono più trascurare la salvaguardia o il ripristino della biodiversità. In questo senso, gli studi genetici condotti sul fagiano di monte acquistano una grande rilevanza gestionale oltre che scientifica.
La distribuzione del gallo forcello
L’areale di distribuzione del gallo forcello, compreso fra le medie e le alte latitudini del continente euroasiatico, è il più vasto fra quelli dei tetraonidi del Paleartico, con un’estensione longitudinale totale che supera i 6.000 km. La distribuzione di questa specie è abbastanza continua nella parte nord-orientale dell’areale, grazie alla disponibilità di un habitat pressoché ininterrotto costituito dalle foreste boreali, mentre risulta piuttosto frammentata nella porzione sud-occidentale, in particolar modo in Europa centrale, dove è presente in piccoli nuclei isolati, relitti dei fenomeni glaciali. Qui e nella parte occidentale del vecchio continente i contingenti hanno subito, a partire dagli anni Settanta, una rapida contrazione, che ha portato fino a eventi di estinzione locale. In Italia, il gallo forcello è presente sui rilievi alpini e prealpini a quote comprese tra i 900 e i 2.000 metri.
Il principale pericolo: l’alterazione dell’habitat
Il pericolo maggiore che la conservazione del Tetrao tetrix deve affrontare a livello globale è l’alterazione dell’habitat. Il degrado e la frammentazione dell’ambiente in cui vive hanno isolato certe popolazioni sulle quali l’indagine genetica diventa ancora più determinante per la salvaguardia della specie.
Dei 761 campioni disponibili relativi alla specie raccolti sulle Alpi italiane, 173 sono stati utilizzati per l’indagine. Dall’analisi di questi con il metodo Gbs sono stati ottenuti un totale di 2.442 polimorfismi a singolo nucleotide (variazioni del materiale genico a carico di un unico nucleotide), un buon numero di marcatori considerando la qualità dei campioni originali, ma inferiore a quello atteso (normalmente tra le 10.000 e le 30.000 varianti).
Riassumendo molto brevemente quanto è emerso, le analisi effettuate hanno evidenziato livelli medio-bassi di variabilità genetica che potrebbero essere un segnale di sofferenza della specie oggetto dello studio. Inoltre, i dati genetici attualmente disponibili (verranno condotti ulteriori approfondimenti) appaiono solo moderatamente influenzati dai pattern geografici. Non è stata, infatti, evidenziata la presenza di popolazioni genetiche geograficamente distinte, ma solo segnali significativi di isolamento per distanza.
Due gruppi geneticamente distinti sulle Alpi
Diversamente da quanto atteso per un selvatico adattato all’ambiente di bassa montagna e con distanze di dispersione post-natale limitate, le catene montuose o le ampie valli presenti lungo l’arco alpino non sembrano essere delle reali barriere alla dispersione per questa specie. Rimane quindi da approfondire la presenza sulle nostre Alpi di due gruppi geneticamente distinti seppure omogeneamente distribuiti. La distribuzione omogenea sul territorio di individui con componente genetica mista, ma anche di individui puri con componente genetica unica fa pensare a fenomeni recenti di mescolamento tra gruppi precedentemente isolati, dei quali sarebbe importante identificare la provenienza.
In conclusione, una gestione attenta ed efficace della specie a livello alpino dovrà tenere presente il livello medio-basso di variabilità genetica riscontrata. Le scelte, in termini di abbondanza e distribuzione dei prelievi, dovrebbero essere ridiscusse non solo in funzione dei criteri demografici, ma anche identificando e preservando le aree principali attraverso le quali hanno luogo la dispersione degli individui e il flusso genico.
Infatti, sebbene i dati non abbiano evidenziato fenomeni di isolamento genetico, la frammentazione delle aree idonee per la specie e la suddivisione in un gran numero di sottopopolazioni, tra loro diversamente connesse e soprattutto con densità demografiche molto variabili, rimangono tra le principali minacce alla conservazione del gallo forcello.
Le analisi attualmente in corso, che prevedono, oltre al sequenziamento aggiuntivo, l’analisi di nuove popolazioni distribuite sull’arco alpino italiano, attraverso una maggiore informazione genetica e una più ampia copertura geografica consentiranno di valutare più in dettaglio quanto finora riscontrato, per fornire così specifici suggerimenti gestionali.
Per chi volesse approfondire, ulteriori dettagli relativi a questa ricerca sono consultabili sul sito di Uncza.
Si ringrazia Sandro Flaim, presidente di Uncza, per il prezioso contributo alla stesura di questo articolo.
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