La cultura della caccia insegna che proprio nell’incontro con gli animali, cercati in una cornice degna, sta quella bellezza difficile da descrivere, ma che la caccia racconta.
La cultura della caccia insegna che quello che noi possiamo sognare la natura lo ha già creato. E una caccia degna di questo nome è soltanto quella che viene incorniciata da un ambiente non profanato, perlomeno rispettato, quello che la natura, appunto, ha già creato. Non c’è nulla in natura che l’uomo può rendere migliore. Le nostre azioni servono soltanto ad adattare il territorio alle nostre esigenze, in una scala di priorità valoriali che non è qui il caso discutere.
Quest’inverno questo pensiero mi è tornato in mente più volte. Mentre percorrevo strade intorno alle quali osservavo cacciatori e cani muoversi tra reticoli di vie con l’orizzonte scandito da file indiane di pali elettrici e da code di auto in corsa su strade e autostrade. Anche il bosco mi è parso non poche volte ferito. Tagli incongruenti, rumori invasivi, pattumiera in posti inimmaginabili. E in un momento in cui si parla sempre di più di tutela della biodiversità, di necessità di preservare o perlomeno di gestire correttamente l’ambiente tutto mi è sembrato un po’ più buio.
Caccia e territorio: binomio indissolubile
Mi pare che la caccia, oggi, abbia un senso forte soltanto se ancorata al fatto di essere un gesto collocato in una scena grandiosa. Perché che cosa rimane della caccia se non è immersa in una natura all’altezza, stimolatrice anche di quel certo senso dell’avventura? Riflettere su questo concetto lo ritengo considerevolmente laborioso, almeno per me. Mi astengo quindi dal facile e semplicistico giudizio, e mi limito ad alcune considerazioni.
Percepisco la possibilità di vivere la caccia come l’opportunità di approfittare di scampoli di vita libera, piccoli momenti di felicità in cui sento di riflesso la grandezza di ciò che è sacro, la natura appunto, di ciò che è più potente di noi. L’adrenalina e l’emozione dell’incontro con l’animale selvatico per me sono questo. Poco vale l’abbondanza della selvaggina in assenza di uno struggente scenario. Il fatto di sentirmi rappresentata nel quadro della natura è il motivo per cui amo la caccia. È quasi un rigurgito di egocentrismo.
Il concetto di natura selvaggia al centro del dibattito sociale
Poter vivere insieme alla terra lo percepisco come il segreto per essere una persona migliore. Così, talvolta, tutta questa tecnica e le tecnologie che vengono utilizzate per cacciare con maggiore profitto mi sanno di mancanza di volontà di fare uno sforzo autentico. La fatica della ricerca senza suggerimenti, la fatica di addestrare un cane, la fatica del cammino, la fatica di essere soli. Eppure mi sembra che sia proprio questa fatica il senso della caccia.
Il concetto di natura selvaggia è attualmente al centro di molte riflessioni e del dibattito sociale, ma che cosa occorra davvero per adattarsi ai suoi bisogni, se questi sono prioritari rispetto ai nostri, quanto la nostra vita dipenda da una natura sana e se uomo e natura condividano le stesse necessità rimangono domande senza risposta. Qualsiasi valutazione porta le sue conseguenze. Sta a noi valutarle e decidere come porci tra costi e benefici. Come scegliere di entrare in contatto con ciò che è infinitamente bello.
Una cornice di valore
Io so solo che senza scenario, senza solitudine e raccoglimento non esiste la caccia. Non vale l’abbondanza della selvaggina se è in assenza di ciò che ci affascina: il territorio grandioso. «L’incontro con un animale ti ringiovanisce. L’occhio capta una scintilla. Perché l’animale selvatico – scrive Sylvain Tesson – è una chiave che apre una porta. Dietro, l’incomunicabile». E nell’incontro con gli animali, cercati in una cornice degna, vedo quella bellezza che non sono in grado di descrivere, ma che la caccia racconta.
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