La caccia alla quaglia con il cane da ferma è una tradizione venatoria che, con il passare degli anni, l’introduzione della tecnologia e l’uso smodato dei “surrogati”, è stata spesso stravolta e in alcuni casi umiliata.
Laddove viene ancora praticata rispettando nobili tradizioni, non è seconda a nessun’altra forma di caccia.
In primavera, nel periodo del passo, costituisce un valido banco di prova e una preziosa occasione di allenamento sia per giovani setter, sia per quei soggetti più maturi. Nel periodo tardo-estivo, soprattutto nei medicai e nelle stoppie, la quaglia, oltre a essere tra le pochissime specie selvatiche ancora autentiche e disponibili, risulta utile e assai piacevole per preparare i setter alla nuova stagione.
Ma è forse a inizio autunno, quando le ultime rimaste sul territorio muovono verso i luoghi di svernamento, che si verifica il fenomeno chiamato in gergo “ricasco”, che consiste nell’incontrare in particolari giornate un buon numero di quaglie negli altopiani fino a quote solitamente tipiche per le starne o le coturnici. Non è insolito, infatti, incontrarle a fine settembre o ai primi di ottobre tra 1.500 e i 1.800 metri di quota. Qui si stabiliscono spesso anche dopo il taglio dei frumenti mantenendosi, se il clima rimane mite, fino al termine dell’estate.
Le quaglie in quota
Rispetto agli incontri in pianura e nelle stoppie, ove spesso ha dei comportamenti deleteri per lo stile di un setter inglese, negli altopiani o in particolari zone di montagna la quaglia ha un comportamento diverso e molto più convincente per l’ausiliare.
Il terreno accidentato e ricoperto da una vegetazione non molto folta esalta le sue qualità di abile pedinatrice, in grado di confondere e disorientare anche i cani più esperti.
E anche al frullo mantiene un comportamento differente, in quanto tende a buttarsi nei pendii, a prendere velocità e a saettare diversamente da quanto avviene nei piani. In questo periodo, come dicevo, è facile imbattersi in quelle particolari giornate di “ricasco” in cui le condizioni atmosferiche che iniziano a cambiare favoriscono alcune nottate più fredde e il fenomeno delle prime brinate regalano d’improvviso mattinate in cui, in certi incolti il giorno prima deserti, è possibile incontrare un buon numero di quaglie.
Ma andiamo per gradi e soprattutto vediamo di analizzare la funzionalità di questo selvatico al fine di esaltare le qualità naturali di un setter inglese, di valutare quanto la quaglia può essere propedeutica alla crescita dell’ausiliare e quanto sia necessaria la capacità di adattarsi al suo comportamento da parte dei soggetti utilizzati.
Le deviazioni
L’utilizzo del setter sulla quaglia, oltre a dividersi su diversi periodi e su diversi terreni, è condizionato dall’addestramento su dei surrogati che non sono probanti e equiparabili alle quaglie autentiche, ma spesso è subordinato anche all’utilizzo smodato della tecnologia per richiamare sia le quaglie di passo che quelle già insediate.
Questo modus operandi di molti cacciatori e di altrettanti presunti addestratori ha i suoi pro e contro sul tipico lavoro del setter. Se da una parte è in grado di procurare numerosi incontri e testare la capacità di un soggetto di incontrare e mantenere i nervi saldi, dall’altra costituisce spesso un valido stimolo a porre da una parte lo stile e a fare del metodo e del mestiere l’unica arma per districarsi in un campo reso volutamente minato.
È a questo punto che vedremo dei setter metter da parte lo stile e scomporsi in improbabili prese di punto, ferme e guidate che, tra spazzolate di coda e naso in terra, spesso offrono il lato peggiore della razza, quasi come se il fine di fermare e incontrare il più possibile giustifichi il contestabile mezzo che altro non è se non il metodo di lavorarle.
Personalmente preferisco lavorare su pochi incontri e soprattutto sugli altopiani o nei medicai, dove è più facile apprezzare e mantenere lo stile del lavoro soprattutto nei giovani.
Ho avuto in questo senso esperienze di soggetti, soprattutto giovani, che si sono “inquagliati” iniziando a lavorare a testa bassa, non più con il naso sul vento e spazzolando eccessivamente di coda.
Questo ovviamente non è esclusiva colpa delle quaglie o dell’eccessiva concentrazione creata ad hoc. Spesso è anche l’indicatore di naturali predisposizioni a non lavorare con uno stile corretto, è indicatore di incertezze, di fragilità psicologica nel duellare con queste abili pedinatrici e addirittura è anche indicatore di un olfatto scarso e poco concentrato nello svolgimento del lavoro.
Ma va da sé che l’eccesso e le condizioni di lavoro di un ausiliare portano a svelare alcuni limiti di stile o addirittura a fare adattare soggetti in possesso di un buon stile su altra selvaggina, a lavorare con metodi assai discutibili per poter risolvere quante più azioni possibili.
Mentre per alcuni può risultare un vantaggio al fine del carniere, alla preparazione alla stagione venatoria o addirittura per avviare qualche giovane, per altri può risultare deleterio nel compendio sempre utile tra incontri, carniere e stile del lavoro.
E nessun selvatico più della quaglia, anche più delle beccacce, è in grado di esser usato come esempio per il sottile limite che esiste tra il badare alla sostanza della caccia e il badare al giusto compendio tra la soddisfazione venatoria e quella più cinofila e cinotecnica.
In bilico tra sostanza e forma
Nei medicai e nella vegetazione spesso folta dei piani oppure in collina è quindi facile imbattersi in setter, specialisti in questa forma di caccia, che lavorano con metodi assai discutibili anche se efficaci.
È possibile allora vederli cercare con un portamento di testa a martello, fermare a ridosso del selvatico in posture poco tipiche o seguendo la pedinatrice quasi portando il naso a terra.
Tutti elementi stilisticamente non appartenenti al setter, ma che l’eccesso di quaglie e l’abitudine a lavorare in terreni volutamente resi ricchi di presenze lo portano a essere concreto e concentrato a non sbagliare piuttosto che a esser bello da vedere.
Ecco perché preferisco lavorare i miei soggetti su terreni diversi e su presenze meno numerose e più naturali, che possano favorire un lavoro più tipico, che sia in grado di mettere a confronto un soggetto con un giusto numero di incontri su terreni più consoni alla razza, quali altopiani e spesso anche montagna.
Ove lavorare sul vento, avere la capacità di accostare e guidare con prudenza rimanga l’unico metodo da utilizzare per risolvere al meglio un’azione.
Un duro banco di prova
La quaglia da sempre, sia nella caccia che nelle prove cinofile, costituisce un banco di prova assai duro per molti soggetti, tanto che, sovente, si sente distinguerli, maggiormente nel mondo delle prove, in setter “quagliari” o “starniti” a seconda del gradimento mostrato verso l’uno o l’altro selvatico e in base anche all’adattamento al metodo di lavoro utile.
Mentre nelle prove su starne, come nella caccia, è più facile l’adattamento anche per una questione di selezione e di comportamento del selvatico, nelle prove su quaglie, come nella caccia, è il metodo, il tipo di cerca e il comportamento a contatto con il selvatico che fanno la differenza e che mostrano il gradimento da parte di un soggetto.
Tanti setter per questo non gradire le quaglie non vengono presentati nelle prove, onde evitare spiacevoli figure e mostrare uno scadimento delle qualità evidenziate su altra selvaggina.
Nella caccia invece, ove questa esigenza spesso non è così sentita, ci sono soggetti che mostrano efficacia pur lavorando con metodi stilisticamente discutibili e poco affini alle qualità stesse della razza.
Per fare un piccolo esempio tengo sempre a memoria i racconti di un mio zio, appassionato cacciatore di quaglie, che raccontava di una sua formidabile setterina di nome Lea, grande cacciatrice di quaglie, che nelle stoppie, avendo intuito le abitudini delle quaglie, aveva iniziato a infilare il muso sotto le lunghe lingue di paglia poste nei campi, per scovarle e rendere utili le stesse alla doppietta.
Sicuramente offriva soddisfazione a livello di carniere, ma stilisticamente il tutto risulta assai discutibile.
Questione di stile
Ecco allora la domanda: nella caccia alla quaglia il setter ideale è quello che procura più opportunità o quello che, mantenendosi all’interno dello stile di razza, offre carnieri di qualità anche se più ridotti?
Io continuo a preferire quel setter che ha la capacità di rimanere tale pur adattandosi al selvatico e al terreno nel quale lo caccia. Che sia medicaio, stoppia, incolto, altopiano o montagna, lo stile è un punto di riferimento che può fare solo qualche lieve concessione al metodo che si adatta al selvatico. Ma non può essere disatteso al fine di soddisfare l’esigenza di incontrare e concludere.
Ecco perché ritengo che quei setter che rimangono tali praticando questa disciplina possano essere validi soggetti da utilizzare anche in un percorso di selezione. Perché a mio avviso non esiste un selvatico migliore in grado di far “scomporre” un ausiliare. Soprattutto se si continua con il poco etico e smodato vezzo di richiamare quaglie e lanciare setter nell’arena.
Non è mai la quantità a fare grande un setter, ma la qualità, la capacità di risolvere e quella di rimanere sempre e comunque all’interno dello stile di lavoro della razza. A margine di un discorso decisamente più improntato allo stile, rimane fuori discussione l’utilità di questa forma di caccia e di allenamento per la crescita di un soggetto, in quanto abitua il setter a duellare con un selvatico abile pedinatore e, oltre a far crescere il soggetto stesso, è anche in grado di prepararlo e predisporlo a situazioni simili nel bosco. Sta, infatti, dietro a questa capacità di eludere e pedinare che si nasconde il famoso detto “cane quagliaio, cane beccacciaio”.
Un duello appassionante
Quando il setter unisce in sé metodo, efficacia e stile, allora diventa poesia imbracciare una doppietta e in quelle rigide mattine di inizio autunno salire in quota per scovare quei misteriosi angoli dove, senza la necessità della tecnologia, è delizia per l’animo di un vero cacciatore duellare con il proprio setter con le quaglie di “ricasco”.
Inizierà così un’appassionante sfida a suon di ferme, guidate e accostate, che preludono al frullo e a un volo coinvolgente che, a tratti, ricorda per abitudini quello della starna. E lì viene fuori tutta l’arte di una caccia che ha, perfino nell’attimo dello sparo, tradizioni che vengono tramandate e fatte proprie a furia di sbagliare.
Ricordo, alle mie prime esperienze di caccia, le raccomandazioni di mio padre che mi diceva che gli era stato insegnato di arrivare sotto il cane in ferma con la doppietta aperta. Di attendere il frullo, chiuderla e sparare. Tutti piccoli segreti e trucchi che rendono speciale questa forma di caccia, una volta accompagnata e condivisa con un setter in grado di regalare emozioni e non esclusivamente carniere.
Magari ad alcuni di voi sembrerà un discorso da esteta e più frutto di sogni poco concreti. Perché chi ama veramente cacciare con il setter sa che cosa rispondere e sa amare e praticare questa forma di caccia più per l’emozione che regala che per il carniere da mostrare.