Un gruppo di ricerca ha recentemente studiato l’impatto del lupo sugli ungulati, cinghiali e capriolo, dell’Appennino settentrionale. Ma le conclusioni mettono in evidenza il peso dell’uomo cacciatore.
L’impatto del lupo sugli ungulati, e in generale il suo ruolo nei nostri ecosistemi, è sicuramente un argomento complesso e controverso. Non si tratta soltanto di dar conto delle preoccupazioni e talvolta dei pregiudizi di alcuni cacciatori, ma anche dell’acceso dibattito tra gli stessi zoologi.
L’impatto del lupo sugli ungulati: esperienze diverse in territori diversi
Anche tra i maggiori specialisti dei rapporti tra predatori e prede non c’è unanimità di posizioni. C’è infatti chi considera il lupo capace di regolare le consistenze delle proprie prede, di mantenere nel tempo le loro densità su livelli più naturali e meno variabili, e c’è chi lo considera solo capace di ridurre drasticamente le popolazioni predate. Quindi c’è chi sottolinea le capacità del lupo di migliorare la salute delle prede eliminando gli esemplari malati o più deboli e chi sottolinea le sue caratteristiche di superpredatore capace di mettere talvolta in pericolo la stessa sopravvivenza di alcune delle proprie prede. C’è chi attribuisce al lupo il potere di forgiare un’intera comunità di organismi viventi e chi sottolinea invece come le prede del lupo siano più influenzate dagli eventi meteorologici (siccità, inverni molto rigidi) e dalla produttività dell’ambiente.
Naturalmente non si tratta semplicemente di opinioni diverse di qualche scienziato, ma di esperienze diverse vissute in aree di studio molto diverse tra loro. E dato il vastissimo areale di distribuzione il lupo di cui si parla può essere un animale in media di 45-55 chili nelle foreste canadesi, di 40 chili nelle tundre nordiche, di 40-45 chili in Polonia, di 32 chili in Italia e di 25 chili in Arabia o India, immerso in ambienti e comunità animali estremamente diversi e con esigenze e impatti molto differenti. Proprio la sua grande flessibilità ecologica gli ha permesso di colonizzare un areale così esteso tra Europa e Nord America. È quindi impossibile estrapolare i risultati di ricerche svolte in aree di studio diverse per generalizzare le abitudini alimentari e predatorie di una specie come il lupo e le conseguenze sulla dinamica di popolazione delle sue prede.
L’impatto del lupo sugli ungulati: lo studio in Toscana
Uno dei pochi gruppi di ricerca che in Europa ha cercato di studiare l’impatto della predazione del lupo sugli ungulati è stato quello diretto da Marco Apollonio dell’Università di Sassari. Nel 2007 ha pubblicato un articolo scientifico sull’influsso del lupo e dell’uomo cacciatore sulla comunità di ungulati selvatici e domestici della Val di Susa nelle Alpi occidentali. Ora (2020) pubblica invece un lavoro di argomento simile per l’Appennino settentrionale. Gli scienziati si sono chiesti quanto incidano la predazione del lupo e il prelievo venatorio dell’uomo sulle popolazioni di ungulati.
In Val di Susa la comunità di ungulati selvatici e domestici era ed è piuttosto ricca. Vi convivono infatti cervo, capriolo, stambecco, camoscio, muflone, cinghiale, bovini, pecore e capre. Sull’Appennino invece gli ungulati più diffusi sono il cinghiale e il capriolo. Scarsa e recente è la presenza di cervi e rari ungulati domestici. Che ruolo hanno il lupo e il cacciatore nell’influenzare le popolazioni di cinghiale e di capriolo? Quanto viene prelevato in un anno dall’uno e dall’altro? Quali sono le classi d’età maggiormente prese di mira dall’uno e dall’altro? E quanto questo prelievo può incidere sulle dinamiche delle loro prede?
L’impatto del lupo sugli ungulati: censimenti e produttività
L’area di studio è stata l’Alpe di Catenaia, in Provincia di Arezzo. È un comprensorio vasto 120 chilometri quadrati dei quali 27 protetti da un’oasi e 93 aperti alla caccia. La ricerca si è svolta tra il 2000 e il 2010. Per riuscire a capire quanto il lupo e il cacciatore incidano su cinghiale e capriolo bisogna innanzitutto avere buoni dati di censimento e di produttività di questi due ungulati selvatici. Non basta dunque ricostruire la popolazione a fine inverno-inizi primavera. Servono anche i dati di fertilità per stimare tutto il ciclo annuale della popolazione, che ha il suo picco con le nascite. Per fortuna Arezzo ha un’ottima gestione faunistica con censimenti regolari e un’esperienza trentennale, e da parecchio tempo finanzia ricerche scientifiche.
Ecco quindi che consistenze numeriche e natalità anno dopo anno non sono più un mistero o una vaga stima, ma valori affidabili. Per conoscere poi quanti cinghiali e caprioli vengono prelevati dai cacciatori (300 cinghialai e 339 selecacciatori) e di quali classi di peso e di età non c’è alcun problema. Sono utilissimi i centri di controllo dove afferiscono gli animali abbattuti nelle braccate e nel prelievo di selezione e le statistiche venatorie raccolte dall’amministrazione provinciale. Poi bisogna stimare quanti lupi vivono nell’area di studio. Per farlo è necessario mettere insieme tutti gli elementi raccolti con tecniche diverse: conta delle tracce sulla neve in inverno, emissione di ululati registrati in estate, analisi genetiche di cellule rinvenute negli escrementi, rare osservazioni dirette (le trappole fotografiche non erano ancora attive).
L’impatto del lupo sugli ungulati: una stima complicata
Più complesso è stato naturalmente ricostruire il numero e le classi d’età di cinghiali e caprioli predati dal lupo. Prima di tutto bisogna conoscere la percentuale delle diverse specie nella dieta alimentare di questo predatore. E per questo in un decennio i ricercatori hanno esaminato 2.150 escrementi di lupo. Li hanno raccolti pianificando ogni mese sette percorsi di circa dieci chilometri in modo da coprire piuttosto sistematicamente tutta l’area di studio. Attraverso l’esame dei peli, dei frammenti di ossa e dei denti gli studiosi possono identificare le specie predate.
Il volume attribuibile alle diverse prede viene considerato una buona stima dell’abbondanza relativa di queste nella dieta. Ma gli studiosi italiani già nel 1995 dimostrarono alla comunità scientifica mondiale che è possibile andare più a fondo e scoprire, per le specie più importanti, dai semplici resti contenuti negli escrementi quali classi di peso sono più o meno rappresentate. Quindi, osservando le dimensioni di certi frammenti ossei o il grado di fusione delle ossa e chiusura dell’epifisi, è possibile discriminare almeno tra classi d’età semplificate.
L’impatto del lupo sugli ungulati: le preferenze alimentari
In termini percentuali la biomassa predata dai lupi dell’Appennino aretino è risultata costituita per il 63,2% da cinghiali e per il 32,4% da caprioli. I lupi dimostravano una marcata preferenza per la predazione di cinghiali di 10-35 chili. Si tratta di striati già abbastanza grandicelli per essere appetibili e probabilmente piuttosto facili da catturare perché ancora privi di esperienza, nonostante la presumibile coraggiosa difesa delle madri. I lupi dimostravano inoltre di preferire moderatamente i piccoli e giovani di capriolo rispetto agli adulti, sempre per la loro maggiore vulnerabilità.
Ma come si fa a passare dalle percentuali di specie e di classi di prede presenti nella dieta di un lupo medio a numeri effettivi di animali prelevati dalle popolazioni nell’area di studio? Prima di tutto bisogna partire dal numero di lupi presenti: nel decennio nell’Alpe di Catenaia ha abitato stabilmente un branco di circa cinque esemplari. A questo punto, conoscendo le dimensioni del branco e le variazioni nella sua composizione a seconda della stagione e dell’anno, e conoscendo i fabbisogni alimentari giornalieri medi per classe d’età (2,3 chili di carne per un lupo adulto, 1,3 chili di carne per giovane di 6-12 mesi, 1 chilo per cucciolo fino ai cinque mesi), è possibile stimare quanti cinghiali e quanti caprioli finivano ogni anno tra le fauci dei lupi.
Dalle stime calcolate dai ricercatori su 120 chilometri quadrati il branco predava un animale ogni due giorni e mezzo e ogni anno in media catturava e consumava 83 cinghiali e 60 caprioli (circa 0,7 cinghiali e 0,5 caprioli per chilometro quadrato).
Se questi valori ci sembrano dire poco, cominciano ad acquistare un significato più chiaro se li rapportiamo alle consistenze totali post-parti. La predazione del lupo rappresentava infatti l’8,9% della popolazione di cinghiali e l’1,1% della popolazione di caprioli, valori obiettivamente piuttosto bassi.
L’impatto del lupo sugli ungulati: il ruolo dei cacciatori
All’interno dell’area cacciabile e per al massimo cinque mesi i 458 cacciatori abbattevano in media ogni anno 609 cinghiali e 339 caprioli. Il prelievo venatorio rappresentava quindi in media il 63,3% della popolazione post-nascite di cinghiali e il 7,3% di quella di caprioli. L’impatto dei cacciatori era quindi circa sette volte superiore a quello del lupo.
È interessante anche vedere quali sono state le classi semplificate più o meno prese di mira dai cacciatori. Nel caso delle braccate al cinghiale si osserva la tendenza a colpire gli animali relativamente di maggiore taglia, più maturi e quindi con più alto valore riproduttivo. La caccia di selezione segue invece il piano prefissato che comunque non comprende tanti piccoli.
Il prelievo venatorio finisce per incidere in modo decisamente più significativo sulle popolazioni di ungulati rispetto alla predazione del lupo, sia per la quantità di animali prelevati, sia per le conseguenze in termini di tassi riproduttivi futuri. Togliere più o meno esemplari sessualmente maturi non può non avere effetti sulla dinamica di popolazione sia del cinghiale sia del capriolo.
Nessuna specie a rischio
C’è comunque un aspetto da sottolineare. Lo studio nell’Appennino toscano ha dimostrato che le cause di morte combinate di predazione naturale e di caccia non hanno mai superato il tasso di incremento annuo né per i cinghiali né per i caprioli. Quindi non è mai esistito né per una specie né per l’altra il rischio di diminuire drasticamente sul territorio (nonostante che per il cinghiale la forte riduzione dei contingenti fosse un obiettivo gestionale auspicato da amministratori e tecnici). Le stesse forti oscillazioni documentate per il cinghiale nel corso del decennio sembrano soprattutto conseguenza delle fluttuazioni nella produzione di ghiande e faggiole.
I risultati dello studio in Appennino sono piuttosto simili a quelli ottenuti nelle Alpi occidentali nel 2007. Allora i ricercatori osservarono come la predazione del lupo incidesse meno della caccia sulle popolazioni di ungulati e che comunque queste rimanessero sostanzialmente stabili. Tutto questo contrasta con le preoccupazioni e paure di tanti cacciatori che tendono d’istinto a sovrastimare largamente il ruolo della predazione del lupo.
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