Uno studio svolto nell’Appennino tosco-emiliano ha permesso di conoscere meglio lo sforzo con si produce ogni anno il palco del cervo negli ambienti aperti e in quelli boscati.
Per capire quale sia l’investimento necessario a produrre il palco del cervo, e come possa variare a seconda delle circostanze, è opportuno tornare indietro a quasi 30 anni fa. Nel 1993, insieme a tecnici faunistici della società Dream, fui infatti chiamato dalle Regioni Emilia-Romagna e Toscana, a studiare una popolazione di cervi conosciuta allora come il nucleo dell’Acquerino. Prendevano il nome della stazione forestale nell’Alto Pistoiese presso la quale tra il 1958 e il 1965 furono liberati esemplari provenienti da Tarvisio. Di quella popolazione di origine alpina si conosceva allora molto poco; al massimo si favoleggiava delle grandi dimensioni dei maschi e qualcuno effettivamente raccoglieva stanghe di palchi fuori dal comune, robuste e molto ramificate, talvolta con una palmatura vistosa e inconsueta.
L’obiettivo dello studio era conoscere la distribuzione della popolazione, stimarne la consistenza e proporre un percorso per arrivare a una gestione attiva dell’intero nucleo. Controllammo palmo a palmo il territorio a cavallo tra le due regioni per ricostruire l’areale annuale e i quartieri di bramito. E negli autunni 1994 e 1995, con l’aiuto dei volontari dell’Urca bolognese, introducemmo il censimento notturno con ascolto dei bramiti da punti fissi, già sperimentato in Casentino.
Da luglio a dicembre per due anni facemmo centinaia di osservazioni sul campo e sessioni notturne di avvistamento con fari da fuoristrada per cercare di ricostruire la struttura di popolazione, cioè la composizione in classi di sesso e d’età. Scoprimmo così che a più di trent’anni dalla reintroduzione, il nucleo dell’Acquerino si era esteso su un areale piuttosto vasto; occupava infatti 655 chilometri quadrati tra le province di Firenze, Prato, Pistoia e Bologna, con una consistenza numerica di circa 1.200 cervi e una densità di poco inferiore ai due cervi per chilometro quadrato.
Palchi dei cervi fuori dal comune
Bussando alle porte delle case o entrando nei negozietti e bar dei villaggi di montagna, potemmo inoltre misurare più di 200 tra stanghe cadute e trofei recuperati. Non potevamo conoscere i pesi corporei di una popolazione ancora protetta. Dunque studiare le dimensioni e la struttura dei palchi prodotti dai maschi permetteva di giudicare la qualità della popolazione; queste appendici craniche sono infatti buoni indicatori della vitalità e del vigore dell’intera popolazione.
I palchi dei cervi dell’Acquerino erano realmente fuori dal comune, per dimensioni e conformazione: grandi, pesanti, ma soprattutto molto ramificati e spesso palmati. Trovammo casi di addirittura 12-16 punte per stanga, sconosciuti in natura in tutta Europa. Questa tendenza all’iper-ramificazione, che coinvolgeva una percentuale non piccola di esemplari, si manifestava non solo con corone lussureggianti ma anche con oculari bifidi, aghi e mediani biforcuti. La fitta arborizzazione del palco spesso si accompagnava a palmature che univano varie punte. Discendenti dei piccoli esemplari alpini, in presenza di inverni più miti e di ambienti più produttivi i cervi dell’Acquerino avevano potuto esprimere tutte quelle potenzialità della specie che i boschi di conifere e le basse temperature del Tarvisiano non avevano consentito di estrinsecare.
Il nostro gruppo di lavoro non poteva sapere che questa popolazione di cervi stava proprio giungendo al termine di una sua fase storica; che per adattarsi ai cambiamenti ambientali in atto molte delle caratteristiche da noi documentate sarebbero gradualmente scomparse. Una volta istituito il comprensorio di gestione interregionale, nel 2000 cominciarono i primi prelievi sperimentali con l’intento di arrestare l’incremento demografico del cervo e diminuire i danni alle colture. E con l’avvio dei prelievi fu possibile mettere in atto un monitoraggio biometrico intenso e complesso, che dopo un ventennio sta dando i propri frutti.
Un fenomeno imprevisto
L’analisi dei dati biometrici ha subito permesso di documentare un fenomeno inaspettato. I cervi del versante toscano non erano più infatti quegli animali imponenti degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta; avevano invece ridotto la propria taglia rispetto agli esemplari del versante bolognese. I maschi pistoiesi producevano inoltre palchi un po’ meno pesanti. In entrambi i settori dell’Appennino i palchi erano tornati ad avere una struttura più normale, meno ramificata e i casi di palmatura erano diventati più rari.
Che i palchi fossero diventati meno lussureggianti era forse prevedibile. La densità di popolazione, sia pure stabilizzata dai prelievi venatori, era infatti comunque un po’ più elevata rispetto ai primi censimenti. Ma la taglia minore dei cervi del lato toscano ci ha spinto a cercarne la causa. Quei cambiamenti ambientali cui avevamo assistito gradualmente già a partire dalla seconda metà degli anni Novanta avevano avuto sui cervi conseguenze maggiori del previsto.
Abbandonate dall’uomo, le poche aree a prato e i piccoli coltivi che ancora si aprivano nelle foreste demaniali pistoiesi, sono andate degradando; sono state colonizzate da felceti e ginestrai ed essere riconquistate dal bosco. La mancanza di aree aperte e l’invecchiamento dei boschi cedui, sempre più chiusi alla luce e quindi sempre più poveri di sottobosco, hanno influito sulla quantità e qualità delle risorse alimentari disponibili ai cervi del lato toscano; sul versante bolognese la coesistenza di ampie aree aperte e boschi ha continuato a fornire cibo abbondante e vario.
Il fascino del palco del cervo
I cervi devono rispondere alla necessità di possedere appendici craniche in grado di attrarre le femmine, di incutere timore negli altri maschi ed eventualmente di rispondere alle sollecitazioni di veri e propri scontri diretti; devono però fare i conti con la difficoltà di trovare sali minerali e proteine sufficienti a costruirle. I maschi di cervo sanno modulare lo sforzo di costruzione del palco con grande flessibilità, in rapporto alle proprie dimensioni corporee e alle risorse alimentari, raggiungendo sempre la giusta efficienza, sia nelle condizioni frugali della macchia mediterranea della Sardegna o delle brughiere scozzesi, sia nell’abbondanza di paesaggi ricchi di foreste con radure e di pascoli come le fertili pianure dell’Ungheria o i Carpazi rumeni.
Gli zoologi parlano dei palchi come di caratteri sessuali secondari a bassa priorità di crescita, sui quali cioè i maschi in condizioni difficili possono risparmiare; e d’altra parte in situazioni di ricchezza di risorse possono investire più energie. Costruire un palco è comunque sempre un’attività costosa e delicata: nei 140-150 giorni di formazione delle stanghe, e soprattutto tra i 90 e i 110 giorni, il maschio di cervo deve depositare importanti quantità di calcio e fosforo, non sempre reperibili attraverso la dieta. Una parte dei minerali viene addirittura ricavata mobilizzandola temporaneamente dallo scheletro.
Studiando i cervi dei due versanti dell’Appennino è stato possibile capire quanto i maschi investano nel tessuto osseo del palco in situazioni ambientali contrastanti; da una parte un’area ricca di fonti di cibo e con una significativa diversità ambientale (il lato nord), dall’altra un’area divenuta più povera di risorse, più uniforme e compatta (il lato sud). Entrambi i versanti hanno avuto uguali densità di cervi e condizioni climatiche pressoché identiche. Pertanto qualsiasi differenza nel rendimento era attribuibile alla diversa produttività ambientale dei due lati del crinale.
Uno studio dedicato al palco del cervo
Volevo conoscere l’investimento relativo del palco rispetto al peso corporeo nei cervi appenninici. Così, Insieme a Sandro Nicoloso, per molti anni tecnico faunistico a Pistoia, a Luca Corlatti dell’Università di Friburgo e a Francesco Ferretti dell’Università di Siena, ho analizzato i dati dei pesi corporei e dei pesi dei trofei di 1.565 cervi di 1-14 anni raccolti in vent’anni di monitoraggio. Come potevamo studiare la produzione netta del tessuto osseo delle due stanghe del palco rispetto al peso corporeo se conoscevamo solo il peso del trofeo, cioè delle due stanghe più l’intero cranio?
Per escludere il peso del cranio dai nostri calcoli, bisognava cercare di stimarlo in modo affidabile. Dato che per ogni esemplare avevamo anche la misura della lunghezza del cranio, abbiamo utilizzato un campione di crani senza palco segando le stanghe alla base o utilizzando crani di animali che avevano appena perduto il palco. Abbiamo visto come in effetti la lunghezza del cranio possa essere un buono stimatore del peso netto del cranio stesso. Una volta ricostruito il peso netto delle due stanghe e aggiustato i pesi corporei come se tutti i cervi fossero stati prelevati lo stesso giorno alla fine del periodo degli amori, il lavoro di analisi diventava più facile.
Primi calcoli
Il peso del palco dei cervi tosco-emiliani studiati cresce fino ai sei-sette anni e rimane stabile fino ai dieci-undici. Poi inizia il regresso, cioè il declino tipico della fase finale della vita. Negli adulti il peso medio delle due stanghe del palco è stato di circa 4,7 kg sul versante bolognese e 3,9 kg su quello pistoiese. Ciò corrisponde rispettivamente a 6,1 kg e 5,1 kg di peso del trofeo; in media i palchi del lato nord pesavano quindi il 20% in più di quelli del lato sud. Il palco più pesante a Bologna aveva una massa netta di 10,8 kg (e per un anno quel trofeo di 12,38 kg lordi valutato 231,38 punti CIC rappresentò il record nazionale), mentre a Pistoia di 6,7 kg.
Il peso dei palchi era molto variabile nei cervi giovani di un anno, un po’ meno nei subadulti e decisamente meno tra gli adulti; era come se con il progredire dell’età i cervi divenissero meno sensibili alle variazioni ambientali, a fame e freddo, ma anche come se per costruire un palco utile nella forte competizione tra adulti sia necessario convergere verso strutture meno differenti, verso configurazioni più uniformi.
I pesi corporei medi degli adulti sul versante più aperto e produttivo emiliano erano di 195 kg a fine ottobre, al termine degli amori; erano invece di 170 kg sul versante toscano più boscato e meno ricco; la differenza media era quindi intorno al 15%. Al termine della stagione riproduttiva gli esemplari più grossi pesavano a Bologna circa 290 kg e a Pistoia circa 260 kg.
L’investimento nel palco del cervo
Si può finalmente vedere quanto tessuto osseo del palco venga prodotto per unità di peso del corpo, cioè conoscere l’investimento del cervo nel palco. Nei giovani di un anno il palco rappresentava in media appena lo 0,2-0,4% del peso corporeo; nei maschi in piena maturità (dagli otto anni in su) si arrivava a medie del 2,5-2,7%. Ci sono poi casi più estremi: nei cervi più imponenti il palco poteva costituire fino a un massimo del 4,3% del peso dell’animale nel Bolognese e del 3,9% nel Pistoiese.
Un un cervo adulto sardo o della Mesola, tra i più frugali d’Europa, riesce a investire in media nel palco appena l’1-1,2% del peso totale; d’altra parte un cervo ungherese si può permettere di produrre un palco che costituisce in media il 3,7% della massa totale. Le differenze di investimento tra Bologna e Pistoia sono abbastanza modeste, appena due grammi per ogni kg di peso corporeo. Per un cervo di 180 kg si traduce in 364 grammi in più di palco sul versante emiliano (4,8 vs 4,4 kg).
Le cause delle differenze
Se mettiamo a confronto i dati sulle dimensioni dei palchi, sul peso corporeo e sull’investimento relativo dei cervi che vivono nei due versanti dell’Appennino settentrionale con quelli di altre popolazioni europee, neppure sul lato toscano la specie sfigura; si tratta comunque di valori piuttosto buoni. Certamente però le differenze registrate tra gli animali che vivono nelle due province permettono di capire quanto cambiamenti ambientali apparentemente minori come la scomparsa di radure e campetti aperti nei paesaggi forestali di un versante possano influire negativamente sull’accrescimento corporeo dei cervi e quindi, sia pure in modo più contenuto, anche sull’investimento nel palco.
L’articolo completo si può leggere su Caccia Magazine settembre 2021, in edicola; e agli ungulati è dedicata una sezione apposita del portale web di Caccia Magazine.