Chi vuol pronosticare il futuro della caccia deve capire che la contrapposizione tra caccia sociale e caccia privata non è una vera contrapposizione: è meglio parlare di approccio politico e approccio economico alla caccia. E, una volta capito quale sia la genesi storica della particolarissima situazione italiana, bisogna pensare a come eliminare il dissidio.
Nel caso migliore è mal centrata, nel peggiore strumentale: cruciale per investigare il futuro della caccia, la frattura tra caccia sociale e caccia privata nasconde sotto l’ideologia un problema diverso, storico-culturale, e porta con sé la ricetta del rimedio. Che nella sua semplicità è quasi banale: la gestione si dice in un solo modo, dunque la caccia si dice in un solo modo e al massimo possono cambiare protagonisti e relazioni. Ma senza lividi.
Per lanciarla con la fionda: serve un quadro normativo che continui a definire la fauna selvatica come bene pubblico ma ne trasferisca la gestione a concessionari privati. (Senza ideologie: ciò che non funziona, o funziona male, per le infrastrutture può invece funzionare bene per la fauna selvatica. Perché qui i privati – consorzi, consociazioni, cooperative di conduttori o proprietari di fondi – hanno interesse non a risparmiare sulla manutenzione diminuendo i costi, ma a tutelare le produzioni agricole e a migliorare l’ecosistema). Si può però ridurre l’attrito ideologico anche senza toccare la legge, perlomeno per un po’.
Alla ricerca di una definizione
«Intanto occupiamo il 15% del territorio» suggerisce Marco Franolich, consulente di gestione della fauna e direttore nazionale di Eps, «senza però che ci sia bisogno di coinvolgere gli imprenditori. Sotto falsi nomi, gli esempi di riserve sociali esistono già: pensiamo alle autogestite della Sardegna o ai territori comunali già trasformati in aziende faunistico-venatorie». Prima di intervenire sulla legge quadro, che comunque prima o poi andrà cambiata («La divisione del territorio in Atc era stata un’idea innovativa, ma la sua traduzione in pratica si è rivelata fallimentare»), è necessario decidere come definire la caccia dei prossimi trent’anni.
«Nel frattempo cerchiamo di sfruttare appieno quello che abbiamo, a partire dai territori demaniali. Se li trasformiamo in aziende faunistico-venatorie (anzi: chiamiamole riserve, senza timore) potranno permetterci di migliorare la gestione e creare un legame autentico con l’agricoltura». Ma se è davvero un vantaggio per la gestione, gli chiedo, perché dopo tutto questo tempo siamo ancora lontani dal raggiungere la percentuale che la legge riserva alla gestione privata?
Il futuro della caccia: cambiare parole chiave
Risposta impietosa: «Perché i primi a non credere alla gestione autonoma del territorio sono i cacciatori, e con loro le associazioni venatorie che hanno creato opposto ostacoli alla creazione delle riserve. Ma il territorio ha bisogno di essere gestito. E in questo la caccia sociale e la caccia privata non hanno differenze. La contrapposizione è strumentale. La gestione è gestione, non cambia niente se è affidata a cacciatori residenti o a chi preleva a fronte di un corrispettivo economico».
Che in un sistema riformato non è detto che sia da calcolare solo in euro: contano anche il lavoro, gli interventi di ripristino. «Bisogna però aver chiaro che nelle aziende faunistico-venatorie il miglioramento ambientale è ben più alto rispetto a quanto si registra negli Atc. I cacciatori devono allora capire che non possono cacciare in tutta Italia. Devono essere legati al loro territorio, solo così si può avviare una vera gestione. Privata o sociale cambia poco: sono passati i tempi delle grandi riserve private in cui il contadino non aveva diritto di caccia. Oggi, visto che a fronte di un corrispettivo economico – la gestione costa – il diritto c’è, bisogna ridurre lo sfruttamento del territorio» e cambiare parole chiave.
Una storia sbagliata
Alla fine però bisognerà ritoccare l’impianto normativo, e allora sarà bene sapere che cosa si porta sulle spalle. Ho cominciato dicendo che la frattura tra caccia sociale e caccia privata è, se si concede la buona fede, mal centrata. La contrapposizione nasce non da protagonisti diversi, cacciano tutti o caccia solo chi se lo può permettere, ma da una diversa ideologia (si può dire ancora, sì?) che le soggiace. All’approccio economico della Mitteleuropa, il bosco è uno scrigno di risorse necessarie per la sopravvivenza e dunque bisogna fare di tutto perché la gestione sia efficace, si contrappone l’approccio politico dell’Italia mediterranea.
E dunque se in Austria il proprietario terriero ha una forte legittimazione, in Italia si vivono le conseguenze di una strategia diversa e tutta politica. Partito comunista e Dc combatterono le riserve, toscane e alpine. Sulle ragioni servirebbe un trattato di storia del dopoguerra: c’è di mezzo il coinvolgimento delle masse (termine orribile, sì) nella democrazia, la difesa (presunta, sì) dell’interesse dei contadini, l’avversione per una certa nobiltà sporcata le mani e l’anima, la volontà di tenersi stretto il consenso dei cacciatori.
E la gestione è passata in secondo piano. Sempre meno legato al territorio e alla propria comunità perché l’estensione degli Atc spezza ogni vincolo, troppo spesso il cacciatore se ne scorda e preleva quello che può. Tutto quello che può; anche perché se non spara lui sparerà un altro, e allora tanto vale. In Austria e in Germania, dove comunque esistono delle riserve private a carattere sociale, ci si ricorda invece che l’ambiente è un motore formidabile per l’economia (no, non serve il ministero della Transizione ecologica per accorgersene). La selvaggina è un prodotto del suolo, risorsa che il cacciatore coltiva.
Una strada differente
E dunque se la contrapposizione tra caccia sociale e caccia privata ci disegna davanti la lotta tra democrazia e privilegio, è bene cambiare lingua – o quantomeno sapere di che cosa si parli. Se gestisce la fauna come una risorsa di cui è responsabile, il cacciatore può chiedere all’opinione pubblica una diversa considerazione e alla politica attenzioni concrete. Ma la storia d’Italia ha preso una strada differente, anche se nelle vecchie province asburgiche il 1967 portò con sé la legge speciale e le riserve di diritto in Trentino-Alto Adige e in Friuli Venezia Giulia. In ogni caso la mentalità non s’impianta (come quello che voleva esportare la democrazia, no?). La politica mette radici nella società in cui vive e, che indirizzi l’opinione pubblica o ne sia trascinata, se vuole perpetuarsi ne rimane aderente.
E dunque oltre che sbagliato, ogni popolo e ogni territorio hanno le proprie specificità, traslare l’approccio economico austroungarico in Italia sarebbe inutile. Bisogna partire dalla mentalità gestionale, non da copiare ma da reinterpretare. E dunque: potenziamo i censimenti, non solo per gli ungulati; non temiamo di dire che gli Atc di ora sono troppo vasti e che bisogna aprire a una loro suddivisione in unità territoriali ridotte. Se per essere capillare la gestione ha bisogno di unità piccole, l’Atc può diventare una confederazione di distretti – che poi nulla vieterebbe di definire riserve, e semmai riserve comunali.
Il futuro della caccia: gestione privata di un bene pubblico
Prima o poi però sarà necessario revisionare la legge quadro: rispetto al 1992 il contesto ambientale, sociale ed economico è profondamente cambiato. «E non scordiamoci che la 157 si ispira all’Italia degli anni Settanta e Ottanta» nota Giovanni Giuliani, zoologo e tecnico faunistico che da tempo collabora con amministrazioni regionali, Atc, aree protette e aziende faunistiche. «Era di per sé una legge che guardava al passato e in trent’anni l’Italia è cambiata in maniera radicale. C’è una forte dicotomia tra società rurale e società urbana, i cacciatori sono sempre di meno e sempre più vecchi».
Per raccogliere la pallina lanciata con la fionda in apertura: quando si interverrà sulla legge, sarà opportuno ribadire che la fauna selvatica è un bene collettivo ma cambiarne le modalità di gestione. «Non vedo altro che la concessione ai privati. Consorzi, consociazioni e cooperative di conduttori o proprietari terrieri acquisiscono la gestione pluriennale del territorio e vi coinvolgono le categorie sociali interessate, cacciatori e associazioni di protezione ambientale».
Alla base una serie di valori: tutela della fauna (e a questo punto non sarebbe più motivo polemico, a differenza di quanto avviene con la 157/92: una legge che affida la gestione ai privati deve per forza ribadire che la fauna deve essere tutelata), conservazione della biodiversità, rispetto delle norme comunitarie.
Cambia il destinatario, non l’importo
«Poi bisogna rispondere alla domanda successiva: chi caccia? Risposta: non basta dire “chi paga”. L’accesso al prelievo deve infatti essere vincolato alle attività volontarie di gestione» che permettono di risparmiare sulla quota («E chiaramente chi fa più specie paga di più. Oggi invece esistono alcuni Atc in cui con 50 euro si può accedere a qualsiasi forma di prelievo. È un approccio squallido che rende impossibile una gestione effettiva»). «E non penso solo alle attività di prassi venatoria come la costruzione di altane o i ripopolamenti: delle attività volontarie di gestione devono far parte tutti gli interventi legati all’ambiente».
Si dirà: ma i cacciatori dovranno spendere di più. E se si rende rischia che quei pochi diventino ancora meno. E invece: «Mettiamo da parte il costo dell’Atc e ragioniamo solo sulle tasse governative e regionali. Al momento la spesa annuale si aggira sui 250 euro». Ma Stato e Regione avrebbero già avuto il loro con l’avvio della concessione privata. «Se cambia il presupposto normativo quell’importo viene dirottato verso altri beneficiari», per l’appunto i concessionari. «Si contribuisce alla gestione con 250 euro e siamo sicuri che quei soldi saranno spesi per qualcosa di concreto. È una contraddizione che, com’è adesso, in parte siano destinati alle associazioni venatorie. Preferisco affidare agli agricoltori la gestione diretta del territorio e darli a loro».
Il segno evidente di una legge che non va
Un altro tema fa capire la complessità della situazione. «Che progetto può esserci in una filiera in cui gli agricoltori non hanno ritorno economico, e addirittura devono comprare la carne dai cacciatori? In alcuni Paesi si può compensare l’iscrizione di caccia cedendo la propria quota; oppure si fa a metà e si risparmia un po’».
È il segno evidente di una legge che non va. «La 157/92 prevede la compartecipazione delle componenti sociali – cacciatori, agricoltori, ambientalisti, istituzioni – nella gestione del territorio. Ma questi schemi di rappresentanza e di cooperazione non esistono più: sono cambiate le esigenze, sono cambiate le condizioni. E salta il modello. È chiaro che non si può semplicemente privatizzare la gestione, tantomeno privatizzare la proprietà della fauna: in Italia non c’è questa cultura», scatenerebbe la rivoluzione. Serve una via d’uscita che permetta di far guadagnare chi con il proprio lavoro arricchisce l’ambiente. «Il proprietario terriero cui è affidata una concessione decennale può anche guadagnarci, a patto che riduca i danni all’agricoltura e aumenti la biodiversità; dopo dieci anni voglio veder nidificare non più solo il fringuello o il passero, ma anche l’ortolano. Deve essere un obiettivo chiave per il rinnovo della concessione». E a occhio nessuno ci rimette.
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