Coinvolge i cacciatori e una maggioranza di destra: ecco perché buona parte dell’opinione pubblica sta attaccando, fraintendendola, l’iniziativa di Fratelli d’Italia sul contenimento della fauna selvatica.
Sono evidenti i motivi della diffusa ostilità che circonda la nuova formulazione della legge sul contenimento della fauna selvatica: l’ha proposta una maggioranza di destra (primo pregiudizio), per propria natura affine al mondo delle armi (secondo pregiudizio, duplice), e prevede di coinvolgere i cacciatori (terzo pregiudizio). Non si spiega altrimenti come mai oltre all’opposizione anche buona parte della stampa (intervistando Tommaso Foti su Repubblica di stamani, Massimo Calandri suggerisce che «si potranno sterminare tante specie – volpi, lupi, orsi» mostrando di non aver chiaro il concetto di specie particolarmente protetta) si sia sollevata contro un provvedimento che per chi lo ha letto è decisamente lineare.
Nella formulazione attuale (ma è ragionevole pensare che poco ci si scosterà) si riconosce infatti al governo, d’intesa con la Conferenza delle Regioni, il potere di adottare «un piano straordinario [quinquennale] per la gestione e il contenimento della fauna selvatica. Il fatto che ad attuarlo siano chiamati innanzitutto i carabinieri forestali dovrebbe rappresentare una rassicurazione sufficiente; è soltanto su loro iniziativa che possono intervenire gli agenti di polizia locale, le guardie venatorie e anche cacciatori e proprietari o conduttori dei fondi.
Interventi mirati
E non dovrebbe esserci bisogno di spiegare perché è inevitabile prevedere d’intervenire anche «nelle zone vietate alla caccia, comprese le aree protette e le aree urbane, nei giorni di silenzio venatorio e nei periodi di divieto»; anche se non sempre e non ovunque, è più facile che la fauna si riveli problematica ove la caccia non può operare la propria funzione di riequilibrio. È chiaro che, come già per il controllo faunistico previsto dall’attuale articolo 19 della legge 157/92, saranno definite delle procedure di sicurezza rigorose e in molti casi si dovrà ricorrere alla cattura e posticipare l’abbattimento; ma, anche se falso, è molto più comodo ed efficace (a quale scopo?) raccontare che i cacciatori potranno sparare in mezzo al tessuto urbano.
E dopo anni di studi è frustrante dover spiegare una volta ancora perché, se negativa ai test igienico-sanitari, la carne degli animali prelevati possa esser destinata al consumo alimentare; l’alternativa infatti è la via per l’inceneritore, non una grande soluzione nel momento in cui ci si scanna sull’ecosostenibilità, il riciclo, la condanna degli sprechi, il chilometro zero (difficile trovare uno zero più zero di così).
È vero che i rifiuti urbani non rappresentano il tipo d’alimentazione ideale; ma è bene non interrogarsi troppo sulla dieta standard del cinghiale, decisamente poco schizzinoso (dalla sezione Ambiente del sito della Regione Emilia Romagna: «onnivoro, si nutre di ghiande, castagne, tuberi, bulbi, rape, cereali, frutta, piccoli invertebrati, uova, nidiacei di uccelli e anche rettili, anfibi, carogne, topi e conigli»); la negatività ai test diagnostici (c’è chi teme la trichinellosi: dovranno essere negativi al test; c’è chi teme la peste suina africana: dovranno essere negativi al test) rappresenterà una garanzia sufficiente; e in ogni caso nessuno sarà obbligato a mangiare carne di cinghiale abbattuto durante le operazioni di contenimento.
Gli anacronismi della 157/92
Invece di cullarci in una visione fiabesca della natura, bisognerebbe avere il coraggio di dire che la legge quadro sulla fauna e sulla caccia risente di una serie d’anacronismi inevitabili; all’inizio degli anni Novanta la densità della fauna in Italia (e le cause sono molteplici: qualcuno darà la colpa ai ripopolamenti venatori, le cui responsabilità peraltro sono note; ma ci sarebbe bisogno di un’analisi più profonda, che attraversi anche l’abbandono delle campagne e la riduzione del numero dei cacciatori) era profondamente diversa da quella attuale. E se allora un accenno di sfuggita era sufficiente (nella 157/92 di cinghiale si tratta solo una volta, per definire la durata della stagione della braccata; di ungulati poco di più, giusto per incasellarli all’interno della caccia di selezione), adesso no.
Ma non lo si capirà mai se si continuano a considerare le associazioni animaliste come custodi del bene comune, anziché come sostenitrici legittime d’interessi legittimi ma di parte; la stampa non fa un buon servizio alla nazione se anziché analizzare il portato complessivo della legge (come tutto criticabile, ma nel merito) si appiattisce sui comunicati di Enpa, Lac, Lav, Legambiente, Lipu e Wwf.
È una sola la critica che si può rivolgere all’emendamento Foti sul controllo faunistico: è stato introdotto nella legge di bilancio, quando con il bilancio non ha niente a che fare. Sarebbe stato meglio dedicargli un provvedimento apposito, con annessa discussione dedicata; ma è facile prevedere che, tra gli strepiti degli animalisti e una campagna di stampa ideologica, avrebbe fatto la fine del decreto sul prolungamento della stagione di caccia al cinghiale, i presidenti di Regione riuniti a chiedere con urgenza l’intervento di un governo che stava morendo.
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