La caccia occupa una posizione marginale tra i fattori d’impatto sulla fauna selvatica. Lo si capisce se si analizza a fondo il rapporto sullo stato della natura nell’Unione europea (2013-2018).
Ci si interroga ripetutamente su quali siano i fattori d’impatto sulla fauna selvatica. Negli ultimi mesi si sono susseguite diverse occasioni nelle quali l’attività venatoria è stata coinvolta, direttamente o indirettamente, nello sviluppo di dossier sulla conservazione della natura e delle specie selvatiche nel nostro continente. Si è molto discusso di munizioni in piombo nelle zone umide, prima del voto del Parlamento europeo del dicembre 2020. Ancora, sempre nella seconda metà dello scorso anno, si sono susseguite frequenti valutazioni sulla correlazione fra la pandemia di covid-19 e la caccia.
L’assenza del cacciatore-gestore dai territori rurali ha condizionato gli impatti delle specie maggiormente dannose sulle colture agricole, la gestione di determinati habitat più delicati e bisognosi di cure assidue e il presidio stesso del territorio, che si può ben giovare della presenza dei cacciatori quali attive sentinelle rispetto ad atti di bracconaggio, a incendi o ad altri eventi calamitosi. Si è infine assistito alla conclusione e alla relativa pubblicazione dell’ultimo rapporto sullo stato della natura nell’Unione europea (2013-2018). È un report fondamentale perché viene aggiornato di sei anni in sei anni.
La sua periodicità fissa consente di analizzare l’evoluzione (o involuzione) delle situazioni rispetto a riferimenti temporali sempre uguali. Ci sembra utile tornare con maggiore attenzione sul modo in cui i suoi contenuti sono stati assemblati e anche comunicati. Informazioni complessivamente corrette ma pilotate – fornite parzialmente oppure in maniera fuorviante – possono naturalmente orientare i decisori politici ad assumere indirizzi punitivi per l’attività che si vuole colpire, in questo caso l’attività venatoria, senza alcuna reale e fondata motivazione.
Fattori d’impatto sulla fauna selvatica: indicazioni fuorvianti
In un primo momento la caccia è stata inserita tra i fattori di maggior pressione sugli habitat e sulle specie. Pertanto rientrava tra i fattori di rischio non indifferenti per la loro perdita e il loro deterioramento. Ma al contrario occupa una posizione del tutto marginale. Potrà anche far sorridere, tuttavia in questa direzione hanno giocato un ruolo da non sottovalutare persino i grafici e le illustrazioni utilizzati per divulgare il rapporto. I dati sono peraltro accessibili al pubblico. Questo ha permesso a chiunque volesse effettuare verifiche di accedervi per cercare di capirne di più. Face lo ha fatto.
E ne è scaturita un’indicazione molto diversa: la caccia rappresenterebbe solo lo 0,66% di tutte le pressioni di maggior livello segnalate. In altre parole, gli Stati membri hanno segnalato che l’attività venatoria risulterebbe essere un fattore di pressione di alto livello per le specie e gli habitat in meno dell’1% dei casi. Uno dei motivi principali per cui molti media si sono scagliati contro la caccia, additandola come uno dei fattori prioritari di pressione cui la natura nell’Ue è sottoposta, sono state le infografiche diffuse dall’Agenzia europea per l’Ambiente. Si è identificata nell’immagine di un cacciatore con fucile in spalla e cane, inserita nel contesto delle maggiori pressioni sulla natura, la perfetta sintesi del livello di pressione “sfruttamento delle specie”.
Sciogliere l’equivoco
La Face è dunque andata a spulciare fra i dati forniti dagli Stati membri, rilevando dettagli che fanno seriamente riflettere. Su un totale di 5.596 relazioni sui fattori di pressione di alto livello sugli habitat, gli Stati membri riferiscono solo in tre casi di habitat sotto pressione a causa della caccia. Il numero corrisponde allo 0,05% del totale di pressioni di questo genere. Oppure, nel caso della caccia come elemento di pressione su specie selvatiche diverse dall’avifauna, si rileva un misero 0,17% di esempi; alcuni dei quali, salmone atlantico e cicala grande di mare, peraltro sono a dir poco discutibili. È il collegamento con l’attività venatoria risulta francamente incomprensibile.
Per quanto riguarda gli uccelli, la caccia è invece descritta come elemento di pressione nel 2,58% dei casi presentati. Ma anche stavolta occorre addentrarsi con più spiccata attenzione nella lettura fra le righe, onde evitare abbagli. Innanzitutto, nel rapporto le pressioni e minacce per la natura sono state strutturate su due livelli. Al primo livello ci sono l’agricoltura, la selvicoltura e il cambiamento climatico; in un secondo altre attività, fra cui quella definita “uccisioni illegali e caccia”. L’Agenzia europea ha presentato insieme i differenti livelli e le loro percentuali d’impatto su specie e habitat. In questo modo però le percentuali d’impatto relative a una sottocategoria, presentate e trattate insieme alle percentuali delle categorie principali, conducono il lettore ad analogie che non sono pertinenti; anzi, risultano errate perché allineano due livelli diversi.
Così come è da ritenersi errato e soprattutto inaccettabile raggruppare la caccia insieme alle uccisioni illegali. L’attività venatoria è abbattimento e cattura leciti e legittimi di fauna selvatica, che di per sé non può assimilarsi ad attività illecite come il bracconaggio, criminose e perseguite da tutte le norme vigenti, sia comunitarie sia dei singoli Paesi membri.
Fattori d’impatto sulla fauna selvatica: servono evidenze scientifiche
Un ultimo aspetto su cui focalizzare la riflessione deriva dalla pertinenza di utilizzare determinate specie di avifauna fra quelle di riferimento. L’orientamento comunitario oggi prevalente è, se si vogliono stabilire i fattori di maggior pressione, di non riferirsi a specie di uccelli con stato di conservazione favorevole e tendenze di popolazione in incremento o stabili. Tuttavia, all’interno di un elenco complessivo di 86 specie per le quali la caccia è fattore d’impatto sulla fauna selvatica, figura ai primissimi posti l’oca selvatica (Anser anser), seguita molto da vicino dal cormorano (Phalacrocorax carbo sinensis). E per entrambi non si può certo sostenere che siano a rischio di conservazione o in diminuzione. Siamo pertanto di fronte a una scelta di specie, perlomeno di alcune, nettamente contrastante rispetto all’orientamento ricordato.
Insomma, se ci si prende un po’ di tempo per una lettura approfondita è possibile smascherare un’informazione un po’ troppo partigiana (bene andando facilona), nonché una non completa ortodossia nella segnalazione dei fattori di rischio da parte dei soggetti istituzionali competenti. Non ne siamo in verità sorpresi. Ma di sicuro l’ennesima constatazione di questa malcelata avversione per l’attività venatoria non può che infastidire, oltre a ingenerare potenziali danni. È ovvio che, se sentono dire che la caccia è una minaccia per la biodiversità, i parlamentari europei o nazionali potrebbero attivarsi per limitarla o addirittura per vietarla.
Una buona politica di conservazione dovrebbe basarsi su prove ed evidenze scientifiche, come del resto dovrebbe avvenire anche per una buona politica venatoria. Ci pareva il caso di precisarlo, non si sa mai.
L’articolo completo su Caccia Magazine giugno 2021, in edicola dal 20 maggio.
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