Il ddl presentato dall’ex ministro Sergio Costa intende complicare l’esercizio della caccia, fino a renderlo quasi impossibile.
Avrebbe fatto figura migliore a proporre direttamente l’abolizione della caccia: col ddl 1652, che la commissione Agricoltura della Camera discuterà insieme a quello firmato dal leghista Francesco Bruzzone (in confronto i profili di criticità scompaiono), l’ex ministro Sergio Costa intende infatti ostacolarne così tanto l’esercizio da costringere i cacciatori a smettere.
Si spiegano solo in questo senso l’introduzione del silenzio venatorio di domenica, la riduzione della durata della licenza che propone biennale (e niente rimborso della tassa in caso di diniego), l’obbligo di superare l’esame a ogni rinnovo, l’introduzione d’un giudizio psicoattitudinale, l’innalzamento dell’età minima a 21 anni, il divieto di caccia per gli ultrasettantenni e la possibilità di cacciare soltanto nella regione di residenza e in quelle confinanti, e solo per due giorni a settimana.
Ma Costa deve aver pensato che anche così si lascia qualche margine d’azione ai cacciatori: pertanto propone di ridurre la durata della stagione (apertura il 1° ottobre, chiusura il 31 dicembre) e della giornata (si comincia all’alba, non un’ora prima dell’alba), e di rendere vincolante il parere dell’Ispra sui calendari venatori regionali.
Costa vuole consegnare la caccia in mano alle associazioni di protezione ambientale: in caso d’impugnazione del calendario davanti al Tar ritiene infatti necessario disporne la sospensione automatica con esito immeditato, fino alla fine del processo amministrativo.
Non va bene neppure alle associazioni venatorie, che in caso d’approvazione vedrebbero ridotto di quasi due terzi l’ammontare dei fondi a disposizione (il resto finirebbe a interventi di tutela e valorizzazione dell’ambiente) e si ritroverebbero assoggettate al controllo della Corte dei conti. Diminuirebbe anche il loro peso nei comitati di gestione degli Atc: insieme agli agricoltori conterebbero non più per due terzi, ma per il 40% a vantaggio delle associazioni di protezione ambientale.
Una serie infinita d’ostacoli
Neppure gli altri emendamenti sono un favore ai cacciatori: Costa intende vietare l’impiego degli uccelli vivi da richiamo e la caccia da appostamento fisso; gli appostamenti temporanei restano ammessi a patto che non «comportino l’utilizzo di manufatti atti alla mimetizzazione, ancorché rimovibili»: di fatto sarebbero inutili.
Nelle intenzioni di Costa salgono la quota di territorio soggetto a protezione (non dal 20% al 30%, ma almeno il 30% senza contare le zone in cui la caccia è vietata per effetto di altre disposizioni) e la zona di divieto intorno agli immobili (non cento ma duecento metri), alle strade (non cinquanta ma centocinquanta metri) e ai valichi montani (non uno, ma due chilometri); viene inoltre meno la possibilità di cacciare sulla neve anche in zona Alpi, e d’impiegare arco e falco. Agli organi di vigilanza si riconoscono poteri di polizia giudiziaria.
Se alla fine d’ogni stagione, entro il 31 marzo, la Regioni non produrranno una relazione complessiva sullo stato d’attuazione della legge, nel loro territorio la caccia sarà automaticamente sospesa.
È pressoché impossibile che il ddl Costa sia approvato nel corso della legislatura: in parlamento non esiste una maggioranza così ferocemente ostile alla caccia. È bene però seguire l’andamento dei lavori, per scongiurare ogni possibile blitz (basterebbe l’approvazione di un singolo emendamento per complicare la vita dei cacciatori) e rendere il mondo venatorio consapevole delle intenzioni di alcuni partiti: a giugno si vota per il rinnovo di molte amministrazioni comunali e per le elezioni europee.
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