Dall’inglese allo spaniel, facendo tappa sui continentali italiani: un irriverente excursus sull’utilizzo del cane nella ricerca della selvaggina moderna.
Il sapore della caccia con il cane da ferma è ormai dolceamaro, più amaro che dolce. Mi si stringe il cuore a vedere le foto dei cani che i cacciatori diffondono. Ne vanno fieri e cercano di sopravvivere in un mondo che è sempre meno a misura di cane da ferma. Inguaribili romantici? Don Chisciotte che lottano contro i mulini a vento? Sognatori destinati a trionfare? Non so quale di queste sia la definizione migliore, so che per me è molto triste vedere territori e selvatici sempre meno idonei a un setter inglese e, contemporaneamente, il susseguirsi di cambiamenti climatici che temo modificheranno la pratica di certe cacce. Ma non dobbiamo dimenticarci che gli spaniel, in questi “tempi moderni”, rappresentano un anello della catena vincente.
Partiamo dai terreni
Amo i setter inglesi e faccio fatica a utilizzarli. Per carità, se gli impongo di adattarsi si adattano, ma se voglio metterli in condizione di svolgere il loro lavoro come farebbero per tradizione, devo spostarmi in auto, magari anche di tanti chilometri. Non mi piace, ma la normalità è questa. A volte non è nemmeno sufficiente cercare di adattarvisi, perché una volta arrivati sul posto, si scopre che il terreno non va bene e che il cane dovrà lavorare in macchie sporchissime senza nemmeno la possibilità di essere visto e controllato.
Il concetto di cane controllato mi piace perché io lavoro anche sull’ubbidienza e sul fermo al frullo, ma è anche utile per la sicurezza del cane. I collari Gps ci hanno garantito il sogno della sicurezza, ma adesso ci siamo svegliati, perché la sicurezza assoluta non esiste e capite bene, signori miei, che il cane, per mille motivi, è meglio averlo sotto gli occhi che non sul palmare. Potremmo anche parlare dei 13 gradi a gennaio alle cinque del pomeriggio, che in Pianura Padana sono un problema e sarebbe interessante intervistare i migratori e chiedere loro come pensino di gestire la cosa.
Posti da inglesi
Nel recente passato ho intervistato alcuni cacciatori di tipica alpina. Lassù, in montagna, è ancora il setter a regnare incontrastato confermando l’eccezione alla regola. Se è vero che il setter è il cane per la caccia in Zona Alpi, è altrettanto vero che i cacciatori che sfidano le cime sono il corrispettivo dello zucchero a velo sopra una torta a tre strati, la polvere che poggia su una alta e ampia base di cacciatori “normali”.
Scendendo un po’ di quota abbiamo i cacciatori di beccacce in Appennino. C’è chi vuole assolutamente il setter, ma un cane dalla cerca così ampia è adatto a pinete e faggete, meno idoneo ai tanti roveti che si sono impossessati di aree agricole ormai abbandonate.
Non ho dimenticato il pointer. Sta messo come il cugino a pelo lungo, anzi, forse ancor peggio dal momento che per lui i terreni attuali sono ancora più ostili. Ho cacciato con dei pointer in boschi e golene, ma a distanza di una decina di anni, che non sono poi molti, quei terreni sono diventati ancora più complicati.
Chi sceglie il setter o il pointer per andare nei boschi afferma di preferirli ai continentali di ceppo tedesco come il kurzhaar o il drahthaar, che vengono più facilmente tentati dagli ungulati, l’ennesima insidia per il cacciatore di piuma. Altra motivazione riferitami dai beccacciai inglesisti è la pressoché totale assenza di stanziale cacciabile con il cane da ferma nei loro territori. Se non puoi cacciare altro che la beccaccia, è inutile prendere un polivalente, meglio puntare a uno specialista, anche se il concetto di specialista a beccacce, riferito al setter inglese, resta una percezione soggettiva.
L’arte di adeguarsi: kurzhaar, breton e bracco francese
Il setter viene ritenuto da alcuni il mezzo, passatemi il termine, migliore per cacciare la beccaccia, ma c’è anche chi, avendo a disposizione anche la stanziale, preferisce cani più adattabili a terreni non propriamente da inglesi, come quelli con cui la maggior parte di noi si trova a convivere.
Un primo, naturale passaggio è quello ai continentali percepiti come ancora veloci, ma un po’ meno veloci del setter. Penso per esempio al kurzhaar, al breton e al bracco francese. Queste razze rappresentano un primo tentativo di scendere a patti con la necessità di cani un filo più corti e tendenzialmente più collaborativi.
Non fraintendetemi, io amo gli inglesi; ma un certo tipo di selezione moderna produce setter che non sempre sono naturalmente collegati e docili, e questo, specie in aree fortemente antropizzate, è foriero di problemi e arrabbiature. Tra le razze nominate, il bracco francese risulta essere, stando ai commenti dei cacciatori, un cane molto ubbidiente e facile, mentre il breton raduna i suoi appassionati attorno a una piccola taglia e una personalità frizzante. Chi sceglie il kurzhaar, invece, a volte cammina già sul crinale che separa i continentali generici da quei continentali, i mitteleuropei, che chiamiamo polivalenti, cui chiediamo di essere, oltre che buoni cani da ferma, anche validi cani da traccia e da riporto.
Una buona soluzione
Prendiamo a modello il più noto, il deutsch drahthaar. Se interrogate un amatore della razza vi dirà che, stante la situazione venatoria attuale, non ha senso fossilizzarsi sulla ricerca della beccaccia o del beccaccino oppure del fagiano. Bisogna, al contrario, far tesoro di quel che offre il territorio e la stagione, uscire con il fucile in spalla e adattarsi. In questa ottica viene naturale affiancarsi a un cane che, forse, non sarà espressione del migliore dei gesti estetici nelle fasi di ferma, cerca e galoppo, ma che saprà adattarsi al bosco, al campo, all’acqua, ai più piccoli degli animali, così come ai più grandi.
L’efficacia, tuttavia, ha un prezzo e quel prezzo si chiama addestramento rigoroso, il che rende questi cani per molti, ma non per tutti. Un continentale polivalente non addestrato sarà un buon cane da caccia, un soggetto ben preparato, invece, sarà un ausiliare eccellente.
Addestramento e obbedienza restano tuttavia lontani dalla mentalità di tanti cacciatori nostrani che, nella maggior parte, preferiscono vivere la caccia in maniera spensierata, lasciando che siano le qualità naturali a venire in luce spontaneamente. Credo sia facile comprendere ciò: trasforma i continentali poliedrici in ausiliari di nicchia. La loro versatilità da risorsa diventa ostacolo. Sono spendibili in tanti territori e in tanti selvatici, ma se non li si sa guidare prenderanno il comando della giornata di caccia e lo terranno ben saldo nelle loro zampe.
Questo ci obbliga a fermarci, fare un passo indietro e a riflettere. Se gli inglesi hanno sempre meno palcoscenici dove esibirsi, se alcuni continentali rappresentano un compromesso e altri una difficile risorsa, se vogliamo continuare a cacciare la piccola selvaggina con il cane, dobbiamo cercare altre soluzioni, meno scontate.
I nostri continentali
Una risorsa che appassiona un numero ristretto ma costante di amatori sono i continentali italiani. Esistono due cani da ferma nazionali, creati per il nostro territorio e che ci hanno accompagnato nella nostra storia venatoria, eppure talvolta ce ne scordiamo. Che sia bracco o che sia spinone, il cane in questione è un animale che dovrebbe essere naturalmente corto (in senso relativo), collegato e riflessivo. Ci ostiniamo, e mi resta ignota la ragione, a confrontarli con gli inglesi ritenendoli “meno di qui e meno di là”. Non ha senso. Si tratta di razze nate in ambienti e culture diverse, che si sono poi evolute seguendo altre vie. Quel meno che puzza tanto di colpa e inefficienza potrebbe essere la chiave che apre tutte le porte, ma che alcuni di noi hanno dimenticato in fondo al cassetto.
Ricordiamoci che i continentali italiani si sono evoluti come compagni di quel cacciatore appartenente al popolo, che attraverso la pratica venatoria garantiva carne sulla tavola di famiglia. Queste razze esprimono una concretezza che non si è mai privata del gesto estetico: il trotto, le filate, il dimenio di coda che ci preannuncia una sorpresa. Noi moderni cerchiamo di convincerci che quando si va a caccia, in fondo, a contare è il buon lavoro del cane, passare una bella giornata, vedere il sole sorgere e tramontare. È una bugia bianca: se voglio godere del lavoro del cane esco in addestramento, vado ai censimenti, partecipo a manifestazioni di cinofilia venatoria. Se vado a caccia voglio anche godere dell’incontro e, perché no, dell’abbattimento del selvatico. È normale, naturale e lecito.
Adatti al contesto venatorio attuale
E se ci prendiamo il tempo di chiacchierare con qualche utilizzatore di continentali italiani e ascoltiamo le loro tranquille narrazioni scopriamo che i cani da ferma italiani, per quanto antichissimi, sono estremamente spendibili nel contesto venatorio attuale. Non sono lenti, sono dei fondisti diversamente veloci, hanno quel passo brioso che permette al cacciatore di seguirli senza quasi mai perderli di vista. Potrà sembrare una banalità, ma se cacciamo in parcelle di terreno di modeste dimensioni e ricoperte da vegetazione, poter osservare il lavoro del cane e poter lavorare insieme a lui è un privilegio.
Con il bracco e soprattutto con lo spinone ci si può divertire in qualsiasi ambiente e cacciare con profitto anche quei selvatici scaltri che, magari, il collega ha lasciato indietro o che ormai si allertano al minimo rumore, percependo persino l’irruenza del cane. Le caratteristiche che limitano in maniera oggettiva la diffusione del bracco e dello spinone sono soltanto due. La taglia, poiché gestire un cane di 35 chili circa, magari in appartamento, non è semplicissimo. E la riflessività; sono cani che devono maturare ed elaborare le loro esperienza, perciò serve da parte del conduttore un approccio fatto anche di pazienza e di fiducia nel proprio animale.
Sfidare la tradizione con gli spaniel
A livello di reddittività in zone piccole e intricate, lo spinone se la gioca alla pari soltanto con gli spaniel che, tuttavia, sono lontanissimi da lui dal punto di vista della morfologia e dello stile di lavoro. A noi italiani, abituati alla velocità del setter, la freneticità dello spaniel, però, inizia a piacerci e non è l’unica cosa che ce li fa amare. Sono piccoli, il che non guasta, ma cacciano come un cane grande.
Il loro “meno” non deriva dall’essere meno veloci, ma dal non fermare. I cacciatori che cacciano piuma la cacciano con il cane da ferma, uscire con un cane che la ferma non sa nemmeno che cosa sia li fa sentire strani. Al sentirsi fuori posto si affiancano le accuse di altri cacciatori che li ritengono sparatori interessati solo al carniere.
Lo spaniel non appartiene alla nostra tradizione, ma ha una tradizione venatoria e di addestramento, quella britannica, che va rispettata. Se credete che addestrare e condurre un cocker o uno springer sia più semplice che avere a che fare con un cane da ferma, siete decisamente fuori strada. Lo spaniel è sì più attento ai movimenti e alle indicazioni del conduttore, ma è capacissimo di pensare in autonomia e di prendervi la mano. La questione si gioca su una linea sottile e un cane che fa quel che vuole e non ferma è un disastro annunciato.
Uguale soddisfazione a caccia
Però, se ben impostati, gli spaniel sanno riempire i carnieri e dare grandi soddisfazioni, come mi ha raccontato un’amica che è passata dal kurzhaar al cocker. Passare al cocker è stata una scelta molto ragionata e motivata dalla ricerca di un cane più piccolo e più spendibile in Appennino, dove lei vive.
Ho visto i suoi terreni di caccia e ci ho fatto correre un setter. Mi è stato subito chiaro quanto fossero molto più consoni a un cane come il suo che non a uno come il mio. Allo stesso modo i selvatici, orami abituati a pedinare davanti a un cane cui, per selezione, abbiamo imposto di rimanere fermo o di cacciare a grande distanza da noi. Il cocker, dice lei, «non dà al selvatico il tempo di ragionare e di elaborare strategie, e lavora vicino a me; quindi, è facile concludere l’azione con una nota positiva».
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