Suggerimenti e consigli per trattare e cucinare la carne di selvaggina.
La tavola può essere un grande passe-partout per farci capire anche da chi la caccia non la pratica e magari la contesta. Dico sempre che, se potessi, fonderei un’associazione per l’abolizione del salmì. Non perché la carne stufata non sia buona, intendiamoci. Ma perché, purtroppo, è ancora l’unico modo in cui cacciatori, e non, cucinano la selvaggina. Inevitabilmente facendola marinare in litri di vino (in qualche caso anche aceto!) e coprendo il sapore con le spezie più invasive che hanno in casa. Un delitto. Ma giustificabile in qualche modo. O almeno, giustificabile fino a pochi anni fa. Oggi molto meno. Perché così come si formano i cacciatori prima di dare loro il porto d’armi nella speranza che conoscano alla perfezione l’ambiente e gli animali che andranno a cercare, bisognerebbe altresì insegnare loro come trattare la carne per poterne godere fino in fondo le straordinarie proprietà. Per fortuna qualche esempio virtuoso in questa direzione non manca, ma dovrebbero diventare corsi strutturali e obbligatori: per andare a caccia non solo si deve saper sparare, ma si deve saper anche cucinare, andrebbe scritto in qualche regolamento. Lo so, chiedo troppo. Ma trovo che l’eticità con cui tutti ci riempiamo la bocca quando chiacchieriamo tra di noi non si possa risolvere con un ramoscello messo in bocca al capriolo o al cervo e una stretta di mano al nostro accompagnatore. Il rispetto dell’animale deve arrivare fino alla tavola. Di questo resto fermamente convinto.
La pratica corretta
La tavola negli ultimi anni si è profondamente trasformata e ha seguito l’evoluzione che la caccia ha avuto (se non del tutto, almeno in parte: gli uomini restano uomini). Il salmì, dicevo, era giustificabile fino a qualche anno fa perché sul trattamento della spoglia l’ignoranza era totale. Durante le battute al cinghiale (ma purtroppo succede diffusamente ancora oggi e andrebbe rigorosamente vietato) gli animali venivano lasciati ore in terra, anche nei mesi più caldi, sia spanciati che no. Poi portati in macelli di fortuna igienicamente spaventosi, fatti a pezzi sommariamente (a volte nemmeno scuoiati) e serviti in sacchetti di plastica ai partecipanti alla cacciata. Nessuno è mai morto mangiando quella carne, si dirà. Ma probabilmente pochissimi sono consapevoli di quello che hanno portato a casa in quei sacchetti tra batteri e larve di mosca.
Queste pratiche barbare riguardano anche molti tra coloro che praticano la caccia di selezione. E il “delitto” in questo caso è ancora più grave. Perché a differenza della carne di un cinghiale rincorso dai cani (quindi ricca di adrenalina e acido lattico), quella di un animale (sia esso capriolo, daino, camoscio, cinghiale o cervo) che viene prelevato correttamente con un colpo a distanza è una carne ancora più pregiata. Ma vai a far capire in certe zone che non deve finire in salmì, che il gusto di selvatico è il regalo di una spoglia trattata male e che ci sono mille modi di mangiare selvaggina come si mangerebbe dell’ottimo manzo. Il segreto sta tutto nel mantenere il più possibile quella che gli esperti chiamano “catena del freddo” e utilizzare una cella frigorifera per far frollare correttamente la carne: questo è davvero importante, i giorni di frollatura dipendono ovviamente dal peso dell’animale. Poi, dopo averla macellata in un ambiente igienicamente congruo (consiglio: affidatevi a un macellaio che per qualche decina di euro vi può garantire un lavoro perfetto) ogni stallo va messo sottovuoto, con indicazione della data ben in evidenza sul sacchetto. Quindi in freezer pronto per essere consumato in qualsiasi momento. Ma attenzione, altrettanto importante è lo scongelamento. Che deve essere lento, in frigorifero. Mai violento (terribile l’abitudine di mettere la busta sottovuoto in acqua) e a temperature ambiente.
Imparare dagli chef
Fortunatamente l’alta cucina sta dando un grande contributo affinché le cose cambino definitivamente. Ma lo sforzo in questo senso deve essere collettivo, portato avanti da ciascuno di noi. La tavola può essere un grande passe-partout per farci capire anche da chi la caccia non la pratica e magari la contesta. Perché davanti a una tartare di daino e al racconto di come e perché quel daino andava prelevato, papille gustative e cervello funzionano alla perfezione e inevitabilmente si sente il commensale dire: «Ah, ma non sapevo che la caccia funziona così».
Io quando regalo carne di selvaggina faccio mille raccomandazioni. Come se lasciassi un figlio alla baby sitter. E spiego il più possibile quello che ho imparato dai tanti chef che ho avuto il piacere di incontrare durante le puntate per il canale Caccia di Sky. Che cosa ho imparato? Per esempio che la selvaggina va cotta pochissimo. È una carne magra, ricca di ferro, priva di colesterolo. Io ne mangio tantissima cruda (tranne il cinghiale ovviamente) tagliata a tartare o a carpaccio (anche decongelata), oppure scotto il lombo o il filetto (ma anche parti della coscia come fesa e sotto fesa) tre o quattro minuti in padella, poi solo un filo d’olio e un po’ di sale in grani per condirla. E poi cucino altri pezzi come si cucina normalmente la carne più convenzionale: con la selvaggina mista faccio il bollito (strepitoso), con un pezzo di coscia lesso faccio il “vitello tonnato”, per non parlare degli hamburger o delle cotolette alla milanese (vengono buonissime anche con la selvaggina da penna). Gli ossibuco di cervo nella ricetta tradizionale sono spettacolari. Con il fagiano bollito e fatto a straccetti preparo freschissime insalate catalane con cipolla rossa e pomodori camone. E vogliamo parlare delle lasagne al forno con ragù di camoscio?
Un’altra tecnica che ho imparato è quella della bassa temperatura. È facile, comoda e divertente. L’attrezzo ideale da procurarsi si chiama roner: è una resistenza che si immerge nell’acqua e sulla quale si impostano tempo e temperatura. Ma chi vuole provare comunque, senza roner, può fare così: prendete un filetto di capriolo o di camoscio, come volete. Mettetelo sottovuoto (la macchina del sottovuoto deve averla in casa ogni cacciatore che si rispetti). Fate bollire dell’acqua in una pentola. Raggiunta l’ebollizione, spegnete il fuoco, immergete la busta con il filetto nell’acqua e a quel punto con un mestolo muovete l’acqua come se steste facendo una polenta. Così per una ventina di minuti, nel frattempo la temperatura dell’acqua si abbasserà. Poi tirate fuori la busta, estraete il filetto, passatelo qualche secondo in padella per dargli colore e sentirete che carne. Perché? Perché la cottura a bassa temperatura permette alla carne di trattenere tutti i suoi succhi e il suo sapore, niente viene disperso. Una delizia.
Sacerdoti di un sapere da diffondere
Questo era solo un piccolo esempio. Un trucco per spiegare quanto sia importante conoscere e imparare per apprezzare al meglio quello che cacciamo. Piano piano si stanno facendo notevoli passi avanti, va riconosciuto. Piccole filiere di carne di selvaggina sono ormai realtà assodate. L’Emilia Romagna da questo punto di vista è una regione virtuosa, realtà come St. Hubertus e Zivieri dovrebbero essere modelli copiati su tutto il territorio nazionale. Sono operatori che recuperano dai centri di raccolta carcasse di animali abbattuti solo con palle monolitiche e ne trattano le carni a regola d’arte mettendole anche in commercio. Esempi simili ci sono anche in Piemonte: segno di una crescita culturale che ci auguriamo faccia ulteriori e costanti passi avanti. Sicuramente aiutano i corsi di formazione che consiglio vivamente di seguire (penso alla scuola di Latemar diretta dall’ottimo Marco Franolich o alle numerose iniziative di AlpVet). Sono momenti di studio straordinari che permettono di capire definitivamente il valore di quello che cacciamo e ci permettono a nostra volta di diventare sacerdoti di un sapere che va diffuso con cognizione di causa tra tutti coloro che conosciamo, cacciatori e non. Per re-insegnare loro definitivamente che il salmì è solo uno dei tanti modi di gustare le proteine nobili, le uniche davvero bio, che la natura ci offre.