Editoriale
Risvolti imprevedibili
Lo scorso 22 aprile si è consumato il rito della Giornata mondiale della terra, un evento internazionale voluto dalle Nazioni unite per sollevare l’attenzione sulla tutela del pianeta. Giunta alla sua quarantanovesima edizione, ha seguito a poco più di un mese la Giornata mondiale del clima. Svoltasi in contemporanea in molti Paesi il 15 marzo, ha convogliato nelle piazze le proteste di tantissimi ragazzi che sono confluiti nelle iniziative dei Fridays for future di Greta Thunberg, la ragazzina svedese diventata il simbolo della battaglia contro la crisi climatica e il riscaldamento globale. Due eventi che, in sé, non hanno niente di negativo ma, piuttosto, denotano un’attenzione al tema “ambiente” che non può non farci piacere. Restituiscono infatti un minimo di consapevolezza alle nuove generazioni, che troppo spesso sembrano totalmente avulse dal contesto naturale.
Entrambe le manifestazioni rappresentano una presa di responsabilità e sono diventate l’occasione per contestare uno sviluppo economico incontrollato e un utilizzo indiscriminato delle risorse del pianeta, situazioni che producono disparità, inquinamento e sono responsabili di quei cambiamenti climatici che in molti, ma non tutti, ritengono generati dall’uomo e forieri di catastrofi dalle conseguenze sempre più gravi.
Non è mia intenzione né sottovalutare la questione del riscaldamento globale né quelle dell’inquinamento del pianeta e della cattiva gestione delle sue risorse, che mi coinvolgono dal profondo, ma ritengo che questi temi siano stati trattati con la superficialità e il pressappochismo tipici dei movimenti di massa. Dare all’ambiente un valore in sé, addirittura superiore a quello attribuito all’uomo, è profondamente sbagliato: la sua tutela e i concetti di utile e bello, a esso riferiti, non hanno alcun valore senza il soggetto che questi valore gli attribuisce. Quindi l’uomo stesso. Dare all’ambiente un valore assoluto al quale subordinare quello dell’umanità è segno di un vuoto ideologico, il frutto di un approccio sbagliato al problema.
E infatti, dalle contestazioni nei confronti degli abusi che sono perpetrati alla natura siamo passati alla guerra civile dell’agnello, che anche quest’anno si è combattuta in occasione della Pasqua cristiana. Greta Thunberg – in visita al Senato della Repubblica e in Vaticano pochi giorni prima della ricorrenza religiosa – non ha mancato l’occasione per sottolineare la propria adesione al veganesimo, spostando un po’ più in alto l’asticella per chi la segue e vuole vivere coerentemente una scelta malintesa. Come ha scritto lucidamente Marcello Veneziani, “che un agnello debba morire di vecchiaia o di malattia e non di banchetto pasquale è una delle conquiste dovute all’umanizzazione degli animali e alla parallela animalizzazione dell’umanità”. È un fenomeno preoccupante che spezza la catena alimentare, corrompe il naturale ciclo della vita ed estrania sempre più l’uomo contemporaneo dal suo ruolo ordinatore. Generando un empatismo zoologico in grado di produrre danni enormi: quelli sulla salute, sulla psicologia e sulla cultura non sono ancora stati sufficientemente indagati. Quelli sull’ambiente li conosciamo. Un caso su tutti, che posso portare come esempio, è legato alle conseguenze del mancato controllo delle specie invasive – si pensi alle nutrie – che fanno strage di altri animali mettendo a rischio la biodiversità. Sempre a cavallo della Pasqua ha avuto grande eco la questione dei gabbiani a Roma. Sono stati definiti i nuovi padroni della città e ha dedicato loro un articolo anche il New York Times, che ha dato voce ai romani ormai insofferenti e ai turisti che osservano attoniti. Il dibattito si è quindi spostato sulle opzioni percorribili per restituire a Roma la sua dignità e i fanatici dell’ideologia animalista si sono erti a difesa delle nuove legioni di invasori. Intanto i gabbiani restano lì continuando a banchettare sui resti della città eterna. Confermando l’assoluta incoerenza delle idee dei movimenti animalisti, che rappresentano un’aggressione all’uomo e all’ordine naturale e un sovvertimento delle gerarchie dove ora l’uomo è al servizio dell’animale. E non viceversa. Niente a che vedere con il rispetto per le creature della tradizione cristiana, per restare al tema pasquale, cui talvolta i fanatici dell’animalismo si attaccano. E così, oltre all’agnello, fa notizia il pesce – morto, comprato in pescheria a questo scopo – che un insegnante ha portato in classe a Oggebbio, nel Verbano, per spiegare agli alunni l’anatomia animale. Gesto condannato dalla Lav perché, secondo le parole di una responsabile dell’associazione riportate da La Stampa, «utilizzare per la didattica animali, vivi o morti, è obsoleto e mina la sensibilità dei bambini [che] potrebbero rimanere turbati da attività che si servono di animali e potrebbe crescere in loro insensibilità». Per la cronaca, il dirigente scolastico si è piegato alla protesta e ha invitato il corpo docente a utilizzare metodi didattici alternativi. Credo che preoccuparsi dell’abolizione della caccia sia ormai obsoleto. Oggi è molto più urgente preoccuparsi dell’estinzione del genere umano.
Matteo Brogi