Camosci e climate change

Camosci e climate change

Il ruolo del bosco nel proteggere i camosci dal riscaldamento climatico. Cambieranno, di conseguenza, anche i nostri scenari di caccia?

Quando si pensa al camoscio si pensa a un ungulato specializzato nel vivere in alta quota, nelle praterie sommitali e tra le rocce. Chiunque voglia osservarlo sa che deve prevedere lunghe camminate su sentieri di montagna spesso impervi. Certo, fin da poche ore dopo la nascita si muove su terreni in forte pendenza e tra le rocce senza alcuna difficoltà. Ma chi pensasse che il camoscio è un animale esclusivamente d’alta montagna si sbaglierebbe.

Quando alcuni studiosi si accorsero che il camoscio alpino si stava espandendo anche in massicci montuosi bassi come i Giura svizzeri o in certe aree della Germania meridionale, inizialmente si pensò a dispersioni fuori controllo, dettate semplicemente dalle alte densità alpine, dal disturbo antropico o dall’inesperienza giovanile. E quando il camoscio si presentò anche sul Carso triestino o sulla costa dalmata si pensò a semplici eventi casuali, a qualche esemplare che si era perso.

Pressione antropica millenaria

Un gruppo di zoologi e archeologi svizzeri alcuni anni fa, studiando i resti degli accampamenti del tardo Mesolitico e del Neolitico (8.000-4.200 anni fa), si accorse che ossa di camoscio erano regolarmente presenti anche piuttosto lontano dalla catena alpina.

Come se la specie facesse parte del normale bottino di popolazioni umane non migratrici, come se fosse presente in modo stabile non lontano dagli insediamenti, nelle vaste e ancora intatte foreste confinanti su terreno scosceso, ma a quote non alte.

L’attuale distribuzione del camoscio, prevalentemente arroccato sui massicci montuosi, al di sopra del limite degli alberi, sarebbe quindi il risultato soprattutto della pressione antropica millenaria, che ha deforestato fasce amplissime del territorio per far posto a coltivazioni e aree abitate.

Certo, oggi si trova perfettamente a proprio agio tra rocce e praterie d’altitudine, ma grazie alla sua plasticità comportamentale ed ecologica, potrebbe frequentare senza alcun problema aree boscate sia pur prevalentemente in pendenza e con rocce (dove altri erbivori come cervo e capriolo faticano a vivere e i predatori mostrano difficoltà a muoversi).

È l’uomo che, con la propria storia di espansione e distruzione, ha spinto poco a poco il camoscio a restringere la propria nicchia e a frequentare prevalentemente aree d’alta montagna. In realtà, in parecchie aree alpine con massicci montuosi meno alti e con ampie foreste non troppo disturbate dall’uomo, la specie è recentemente tornata a vivere come un tempo sopra e sotto il limite degli alberi.

Insofferenti al caldo

Ungulati adattati ad ambienti montani come camoscio e stambecco soffrono fortemente i cambiamenti climatici di questi ultimi decenni. Specie adattate al freddo nel corso di millenni, arrivate in Europa dalle montagne e altipiani dell’Asia centrale a seguito delle glaciazioni, si dimostrano in chiara difficoltà di fronte all’attuale innalzamento delle temperature.

Gli studi fatti sul camoscio nelle praterie d’altitudine hanno documentato come gli animali tendano a spostarsi più in alto per cercare il fresco e a cambiare i ritmi d’attività dedicando più tempo all’alimentazione nelle ore notturne, con il rischio di ingerire quantità minori di cibo. Dato che con il riscaldamento globale la ripresa della vegetazione tende ad anticipare, spesso il periodo dei parti e dei primi allattamenti non coincide più con il periodo di maggiore disponibilità di cibo tenero e nutriente, con possibili conseguenze negative nell’accrescimento corporeo dei piccoli e quindi anche sulla loro maggiore mortalità.

Il peggioramento qualitativo delle risorse alimentari, la scomparsa o rarefazione di piante più sensibili ai cambiamenti climatici e i costi energetici di termoregolazione naturalmente influiscono sui pesi corporei che tendono a diminuire un po’ in tutte le classi d’età e in entrambi i sessi. Le classi giovanile, secondo uno studio in Piemonte e Canton Ticino, e uno in Trentino, sono quelle più direttamente colpite.

In realtà il riscaldamento globale incide negativamente sui pesi corporei di diversi ungulati di montagna, come il bighorn, la capra delle nevi e lo stambecco, e quelli della fascia boreale come la renna, il caribù e l’alce.

Lo studio nelle Alpi austriache

Gi studi sul camoscio sono stati focalizzati sulle popolazioni più strettamente montane, quelle che passano gran parte del proprio tempo oltre il limite degli alberi. Recentemente però un gruppo di ricercatori tedeschi e austriaci, con il supporto di Luca Corlatti dell’Università di Friburgo per le analisi statistiche, ha esaminato i dati dei pesi corporei di un vastissimo campione di camosci di un anno d’età (precisamente 20.573 esemplari) prelevati in settembre-dicembre tra il 1993 e il 2019 in 28 aree di caccia in Austria (Salisburghese, Stiria e parte della Carinzia, su 14.000 kmq).

La novità del campionamento sta nel fatto che comprendeva animali provenienti da unità di gestione con coefficiente di boscosità molto vario, con non poche aree caratterizzate da vaste aree forestali frequentate dai camosci. L’Austria, infatti, ha visto crescere progressivamente nei decenni scorsi la consistenza numerica del camoscio, da 110.000 animali nel 1980 a 150.000 nel 2000 per assestarsi sui 130.000 nel 2021, e la specie ha finito per colonizzare un po’ tutti gli ambienti alpini sopra e talvolta anche sotto il limite dei boschi.

Due ipotesi

Avendo a disposizione molti dati sui pesi corporei provenienti da aree a copertura forestale variabile (zone prevalentemente rocciose con praterie sommitali e poi via via, aree a sempre maggiore boscosità), i ricercatori hanno così potuto mettere alla prova due ipotesi che avevano avanzato: se è vero che il riscaldamento climatico è andato aumentando nel corso del tempo, dall’esame della banca dati si dovrebbe osservare un declino ponderale tra l’inizio e la fine del campionamento.

E e se è vero che l’aumento delle temperature rende sempre meno ospitali le aree aperte in alta quota e il bosco invece tende per sua natura ad attutire i fenomeni climatici più estremi, i giovani camosci di aree a maggiore boscosità dovrebbero tendere ad avere pesi corporei maggiori rispetto a quelli delle aree più aperte.

L’analisi statistica ha preso in esame l’anno di raccolta, le temperature massime giornaliere primaverili ed estive, l’altezza giornaliera del manto nevoso e la densità di popolazione.

Come previsto, il peso è risultato diminuire nel corso dei 27 anni di campionamento; nelle femmine è stato complessivamente del 5,4% in meno e nei maschi del 3,3%.

Declino ponderale

Il declino ponderale è stato in funzione della incidenza della boscosità sull’unità di gestione e quindi più marcato nelle aree con poca copertura forestale, più modesto in quelle con buona boscosità. E addirittura per le aree con sola superficie boscata non si è registrata alcuna diminuzione ponderale. Naturalmente anche il fattore densità ha influito sulla diminuzione: dove i camosci erano più numerosi per unità di superficie si faceva spazio la competizione per le risorse, oltretutto risorse sempre meno abbondanti.

Il calo del peso dei giovani camosci era anche influenzato dalla copertura nevosa invernale e dalle temperature primaverili ed estive sia dell’anno di nascita sia dell’anno corrente: esemplari che hanno fin dalla loro nascita incontrato difficoltà nell’accrescimento, affronteranno inverni più nevosi con fatica e poi, con primavere ed estati più calde, troveranno cibo meno tenero, più fibroso, con ulteriori conseguenze sulle condizioni fisiche.

Il ruolo positivo del bosco

E d’altra parte i ricercatori hanno potuto documentare come le temperature primaverili ed estive nell’anno di nascita e in quello successivo abbiano minore influsso sui camosci che vivono in unità di gestione con maggiore boscosità.

Come avevano correttamente ipotizzato i ricercatori, il bosco ha un ruolo importante nel mitigare gli effetti del riscaldamento globale, agendo come rifugio termico. la volta forestale, cioè l’insieme delle chiome degli alberi, garantisce al di sotto temperature decisamente più fresche. Questo innanzitutto diminuisce i costi della termoregolazione, cioè il camoscio deve spendere meno energie per raffreddare il proprio corpo nelle giornate più assolate.

Il bosco montano non sa offrire in estate quel cibo tenero che almeno un tempo offrivano le praterie d’altitudine, ma certamente può garantire tutto l’anno e nel corso del tempo buone opportunità di trovare una discreta varietà di fonti alimentari.

I boschi montani sono esposti più di quelli del fondovalle a continui fenomeni di cosiddetto disturbo naturale, cioè di eventi perturbatori naturali come frane e schianto di alberi, che aumentano su piccola scala la diversità ambientale, con conseguente diversificazione delle risorse trofiche disponibili: non ci saranno quelle succulente piantine un tempo comuni sulle sommità dei monti, ma ci saranno comunque parecchi cibi quasi altrettanto interessanti. Minori consumi energetici e sufficienti risorse alimentari si traducono in buone condizioni fisiche e quindi in mancato declino ponderale.

Un futuro meno pessimista

Se quindi gli studiosi fino a poco tempo fa si erano concentrati sul declino ponderale dei camosci giovani dell’orizzonte alto-montano, che poteva portare a minore sopravvivenza e a lungo andare a declino demografico, oggi possono guardare al fenomeno degli effetti del cambiamento globale del clima sul camoscio su una scala più ampia e con minore preoccupazione.

Almeno in alcune aree alpine dove sono disponibili vaste aree boscate i rischi per la specie si rivelano decisamente più bassi. Sempre che non ci siano alte densità di altri erbivori, forti presenze di predatori ed elevata pressione umana (lavori forestali, turismo), il camoscio potrebbe difendersi dal progressivo riscaldamento utilizzando maggiormente i territori scoscesi al di sotto del limite degli alberi.

Simili studi sono possibili solo in presenza di monitoraggi biometrici sistematici e continuativi, standardizzati e omogenei al di là dei confini regionali, incoraggiati da cacciatori di selezione e autorità. Le banche dati devono essere ampie e prolungate nel tempo.

Lo studio preso in considerazione è stato finanziato dalle associazioni venatorie e supportato dalle amministrazioni regionali e forestali federali. Purtroppo non è facile immaginare simili sinergie in Italia, con pochissime meritevoli eccezioni su scala quasi esclusivamente provinciale. Un vero peccato.

Per approfondire

  • Baumann M., Babotai C., Schibler J. 2005, “Native or naturalized? Validating alpine chamois models with archaeozoological data”, Ecological applications 15: 1096-1110
  • Reiner R., Zedrosser A., Zeiler H., Hackländer K., Corlatti L. 2021, “Forests buffer the climate-induced decline of body mass in a mountain herbivore”, in Global Change Biology 27: 3741-3752

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