Che il numero dei cacciatori in Italia sia in rovinoso declino e che i pochi che continuano a esercitare la caccia siano sempre più anziani è ormai una realtà. Ma quali le cause di questo fenomeno? E soprattutto quali i possibili rimedi per porvi freno?
È significativo che su Wikipedia alla voce Caccia si possa testualmente leggere: “in Italia il numero dei cacciatori è in progressiva diminuzione e tale fenomeno va attribuito principalmente alla perdita di attrattiva della caccia, evidente soprattutto tra le giovani generazioni particolarmente sensibili alle tematiche ambientali”.
Ma perché la cultura venatoria non è più di moda tra i giovani? Il problema viene da lontano. Già nel lontano 1935, il principe Francesco Chigi Albani della Rovere, famoso ornitologo, creatore nella sua villa di Castel Fusano di un osservatorio ornitologico e animatore della rivista Rassegna faunistica, affermava che “la legislazione sulla caccia presuppone una preparazione culturale, orientata verso la zoologia, in tutti i dirigenti ed in tutti i gregari della caccia”. Auspicava perciò l’istituzione di comitati zoologici presso le sezioni provinciali della Federcaccia, ritenendo essenziale che l’attenzione degli organismi dovesse essere rivolta principalmente alla formazione venatoria dei giovani. In questo modo costoro “avrebbero sentito che loro compito non è distruggere animali, ma utilizzarli e per lo sport e per la scienza”.
Venti anni dopo, il 28 febbraio 1956, a Siena Remo Dionori ravvisava l’esigenza di “un’attiva opera di educazione venatoria tanto dei cacciatori quanto di tutti i cittadini, perché si possa giungere a una maggiore e migliore difesa e cura di ogni qualsiasi specie di selvaggina”. Prospettava quindi “la necessità di una proficua azione educativa da svolgersi, nelle scuole, in accordo con il provveditorato agli studi e gli insegnanti, con il risultato di far crescere una vera coscienza venatoria in coloro che saranno anche futuri cacciatori”.
I giovani sono stati trascurati: ecco perché scende il numero dei cacciatori in Italia
Ma purtroppo l’esigenza di avvicinare i giovani alla passione venatoria è rimasta nel tempo largamente trascurata. Il progressivo benessere economico successivo alla seconda guerra mondiale ebbe indubbiamente l’effetto di avvicinare alla caccia un crescente numero di giovani, testimoniato dall’aumento repentino delle licenze di caccia verificatosi nei trent’anni compresi tra il 1951 e il 1980.
Nel successivo ventennio si verificò viceversa, una caduta verticale del numero dei cacciatori praticanti, che passarono dagli oltre 1.700.000 del 1981 a meno di 800.000 nel 2001. Gli anni 1991-1993, con una perdita complessiva di ben 423.778 cacciatori, possono essere considerati come il triennio nero: da soli rappresentano circa il 47% dell’intera perdita. Pur continuando, nel decennio compreso tra il 2001 e il 2011 la riduzione del numero dei cacciatori comunque si attenua.
Che cosa ha dunque potuto causare la tremenda emorragia dei cacciatori nel periodo 1981-2001? Proviamo a ragionare prendendo innanzitutto in considerazione i dati statistici sul numero degli occupati in agricoltura. La diminuzione degli addetti nel settore agricolo è quanto mai rilevante: passa infatti dai quasi 7.000.000 del 1951 agli 850.000 del 2011. Tuttavia il decremento più accentuato si verifica negli anni Sessanta, con una diminuzione netta di oltre tre milioni di occupati (-51%).
È l’epoca dell’esodo massiccio dalle campagne verso i centri urbani industrializzati e terziarizzati. Ma a questo fenomeno, vale la pena di notare, non si associa immediatamente nessuna particolare variazione nel numero dei cacciatori. Il forte incremento si verifica infatti nel decennio successivo, gli anni Settanta. In altre parole, sono i nati negli anni Cinquanta che, raggiunta la maggiore età, sembrano mantenere ancora un legame con la campagna grazie alla caccia.
La svolta negli anni Settanta
Ma la generazione successiva, quella nata durante gli anni Settanta, raggiunta l’età per conseguire la licenza di caccia cambia totalmente i propri gusti e si allontana dal mondo venatorio. Questi giovani che abbandonano le tradizioni venatorie dei padri e dei nonni vivono in contesti urbani e sono fortemente scolarizzati. Il numero dei giovani che negli anni Novanta raggiungono l’età per prendere la licenza di caccia ammonta infatti a poco meno di trenta milioni.
Il numero dei cacciatori in Italia: le tabelle
Manca una corretta cultura ambientalista per contrastare il declino del numero dei cacciatori in Italia
Il problema sembra chiaro: il mondo venatorio non riesce minimamente a entrare in sintonia con questo esercito di giovani istruiti. Sono giovani che, vivendo prevalentemente in città, avrebbero bisogno di essere accompagnati a conoscere la campagna e la fauna selvatica che la popola. Avrebbero cioè bisogno di quello che in tempi non sospetti avevano raccomandato personaggi illustri come Francesco Chigi, ma anche semplici cacciatori come Remo Dionori. Invece questi giovani vengono consegnati alle suggestioni ambientaliste e animaliste, cioè a una cultura sostanzialmente anticaccia.
Un dato incontrovertibile: tra le materie di esame per conseguire la licenza di caccia ci si limita, ostinatamente, a prevedere solo il banale riconoscimento delle specie cacciabili, alcune nozioni sul corretto impiego delle armi di caccia, le date del calendario venatorio e la legislazione venatoria. Tutte materie, fatta eccezione per la prevenzione dei danni alle colture in atto, inerenti al prelievo venatorio. Nei testi preparativi per l’esame di caccia non vi è il minimo accenno alla gestione faunistica, cioè alla tutela e all’incremento della selvaggina con adeguati interventi di carattere ecologico, come i miglioramenti ambientali a fini faunistici e il corretto controllo dei principali predatori. E, con la parziale eccezione dei corsi per la caccia di selezione ai cervidi e ai bovidi, non vi si trova alcunché neppure sulla conduzione dei censimenti faunistici e la conseguente redazione di piani di prelievo sostenibili.
Per una caccia conservativa
Il concetto di caccia conservativa rimane, al di là di una furbesca retorica, un tabù. Nei fatti, si afferma, al contrario, una cultura venatoria consumistica fatta solo di animali morti a qualsiasi costo, ricorrendo non di rado, in mancanza di animali selvatici, a massicce immissioni di selvaggina allevata in cattività, destinata a essere abbattuta nella sua totalità nel giro di qualche giorno se non addirittura di pochissime ore.
Può una siffatta coltura avvicinare dei giovani istruiti e bene nutriti come quelli dei nostri giorni? Sicuramente no. Ci sono altre strade da percorrere per uscire da questo precipizio? Certamente sì.
Esempi da seguire per evitare il crollo del numero dei cacciatori in Italia
In Germania il numero dei cacciatori è in costante crescita numerica (+ 17% dal 1992 a oggi) nonostante che per il conseguimento dell’abilitazione venatoria si debba passare da un complesso percorso formativo senza eguali in nessun Paese europeo (corso residenziale di 120 ore su biologia della selvaggina, armi e sicurezza con esame finale scritto, orale e prova di tiro). Nonostante questo, i giovani tedeschi sono attirati dalla caccia. Secondo un’inchiesta condotta dall’Associazione cacciatori tedeschi (Djv) la motivazione principale dei giovani per dedicarsi all’attività venatoria è dare un contributo alla conservazione della natura e dell’ambiente.
In molti Paesi europei le associazioni venatorie sono molto impegnate sulle questioni ambientali, ma con accenti più pratici che ideologici. Attraverso la sua articolazione dipartimentale, la Federazione dei cacciatori francesi partecipa a progetti di riqualificazione ambientale del territorio agricolo in modo particolare attraverso la piantumazione di siepi. Si tratta di iniziative in cui, oltre al volontariato venatorio, spesso partecipano i ragazzi delle scuole. Dal 2011 al 2017 la Federazione dei cacciatori di Pas-de-Calais ha piantumato quasi 700 siepi per un totale di 87 chilometri. I ragazzi capiscono in questo modo che la caccia è prima di tutto prendersi cura dell’ambiente.
Cambio di prospettiva
Negli anni Novanta, anche in ambito venatorio, c’era la convinzione che l’anagrafe avrebbe risolto gran parte dei problemi della caccia. Ma la realtà ha dimostrato che le cose non stanno così. Le specie di piccola selvaggina hanno continuato a declinare nonostante la riduzione della pressione venatoria, mentre per gli ungulati si comincia a registrare difficoltà nel loro contenimento. Un’ulteriore flessione del numero dei cacciatori deve essere pertanto vista con preoccupazione, specie se quelli che rimangono sono anziani e demotivati. La migliore garanzia per la conservazione della fauna selvatica e delle tradizioni venatorie è che ci siano persone interessate a mantenere (anche utilizzandola) questa risorsa. Il cacciatore culturalmente formato è quindi una figura fondamentale perché ha una grande motivazione.
(ha collaborato Francesco Santilli)
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