Un cacciatore quarantenne alle prese con l’avancarica: riflessioni tecniche ed emotive su un primo incontro che ha lasciato il segno.
Appartengo irrimediabilmente alla categoria dei nostalgici. Da quando pratico la caccia al cinghiale utilizzo la carabina semiautomatica Remington Woodmaster 7400 che mio padre si regalò in occasione della mia nascita. Un’arma che mi ha accompagnato nella crescita nella convinzione che, un giorno, l’avrei portata a caccia. E così è stato, nonostante il calibro, quel 280 Remington che vanta un’ampia schiera di detrattori, e gli sviluppi tecnologici. Nella mia vita di cacciatore ho incontrato molte persone che la considerano una scelta bizzarra. Recentemente ho sviluppato il desiderio di cambiare approccio. Non solo alla caccia al cinghiale, ma alla caccia in generale. Specialmente da quando le campagne sono affollate da cacciatori che sfoggiano caricatori da 10 colpi o fucili d’assalto (apprezzo i black rifle, ma la loro destinazione d’elezione mi sembra il combattimento o il poligono). Vorrei dimostrare a me e a chi mi osserva che si può essere cacciatori realizzati anche con strumenti che richiedono più abilità personali e che nello stesso tempo restituiscano al gesto venatorio quel “sapore di sfida” che le moderne tecnologie talvolta possono mettere un po’ in ombra.
Consapevolezza ambientale
Sono cresciuti in me la consapevolezza ambientale e il rispetto dell’animale e un certo gusto per la sfida. Un po’ come per l’alpinismo, il raggiungimento del proprio limite impone di spostarlo in avanti impegnandosi in nuove sfide, così è per la caccia. Qua, però, non si tratta di tentare pareti strapiombanti o vie sempre più ardite ma, semmai, di vivere un’esperienza più totalizzante con la natura, di estendere le conoscenze delle caratteristiche della preda e delle sue abitudini, di rinunciare agli ausili che l’evoluzione tecnologica offre e di recuperare un rapporto paritario con il selvatico. Posto che colpire un bersaglio nella zona vitale a 300 metri e oltre è comunque un esercizio di grande abilità tecnica, credo che non sia da meno avvicinarsi allo stesso bersaglio fino a 50-60 metri senza farsi scoprire e piazzare il colpo. Questa sfida, che a lungo mi ha solleticato, l’ho raccolta quest’anno e, al primo invito a una battuta alla maremmana, ho lasciato a casa la Remington per provare le doppiette express Kodiak MK VI calibro .50 e MK III calibro .58 messemi a disposizione dall’azienda Davide Pedersoli di Gardone Valtrompia.
La cronaca della cacciata
Riassumerò in poche parole la giornata perché, in questa occasione, mi preme parlare delle ragioni di una scelta di vita piuttosto che dei motivi per cui non ho sparato. La riserva che mi ha ospitato (si ringrazia l’Armeria Sensi di San Concordio (Lu) che ha organizzato la battuta) prevede la caccia da altana; magnifica l’ambientazione, selezionata dalla Pedersoli nel suo sforzo di individuare proposte adatte a una caccia di qualità. I palchetti sono dislocati al limitare della macchia mediterranea grossetana e presentano un campo di tiro piuttosto limitato in termini di profondità. Una condizione ideale per provare un Express a polvere nera, le cui caratteristiche non lo favoriscono nei tiri lunghi. Il Kodiak MK III era fornito di due fogliette da battuta, l’MK VI di diottra Ghost, regolabile in alzo e deriva. Dotata di un anello di traguardo, rappresenta uno dei tentativi che, già nel XIX secolo, si facevano per ottenere un’acquisizione del bersaglio più rapida e che, nei decenni successivi, hanno portato a ottiche olografiche e altre amenità. La disposizione meccanica del Kodiak è quella tipica di un’arma ad avancarica con sistema di funzionamento a percussione azionato da due cani esterni. Per quanto si voglia seguire la tradizione, è indispensabile dotarsi di strumenti sicuri; i cani dei Pedersoli sono quindi forniti della mezza monta.
Il caricamento
Per chi è abituato alla cartuccia metallica la procedura di caricamento può sembrare un inutile virtuosismo. Chi, invece, riesce almeno alla domenica ad abbandonare i ritmi frenetici dei nostri tempi, vi troverà il sapore della lentezza, un “approccio zen” che permette un momento di riflessione e di attenzione in più. Versata la polvere ed eventualmente del semolino, non resta che calcare la palla con la bacchetta in dotazione (in legno, la sua presenza è più ornamentale che funzionale) o con una in alluminio. Nel Kodiak MK III abbiamo optato per una palla Miniè da 620 grani, leggermente sotto-calibrata rispetto al diametro nominale della canna, in piombo tenero. Questa particolare palla presenta una base concava che, sotto la pressione dei gas sviluppati dalla combustione della polvere, tende ad espandere il piombo, così da farlo ben aderire alla rigatura e fargli acquisire il moto rotatorio indispensabile alla sua stabilizzazione. Se la scelta della corretta dose di polvere è ormai imposta dalle consuetudini, quella della palla è più delicata. Senza venire meno alla filosofia dell’avancarichista, infatti, credo accettabile ricorrere a proiettili di concezione moderna quali, ad esempio, le palle ramate Spit-Fire di Barnes o le Sabot di Hornady, queste ultime scelte per la doppietta MK VI.
Tornando alla mia domenica in altana…
… la cacciata non è stata particolarmente proficua. Nonostante abbia visto 3 cinghiali non ho sparato neppure un colpo per quello che può essere considerato un eccesso di prudenza ma che, a caccia, ritengo dovrebbe essere la norma. Una condotta prudente, quando non si sia in grado di valutare il termine della traiettoria della palla, non è solo un gesto di cortesia nei confronti degli altri cacciatori, dei battitori o di chi approfitta di una bella giornata per fare quattro passi nel bosco. La prudenza è una regola di vita che consente di vivere in pace con se stessi e di non mettere a repentaglio un bene, la vita altrui, che nessuna passione, per quanto ardente, può minacciare. Gli express, quindi, al termine della battuta sono rimasti carichi; in questa situaziona, due sono le opzioni: rimuovere le palle utilizzando l’apposito estrattore e successivamente la polvere (dopo aver provveduto alla rimozione degli inneschi) oppure, una volta avvertito il capo caccia ed essersi sincerati di poterlo fare in condizioni di sicurezza, sparare nel terreno con un angolo di tiro che scongiuri l’eventualità di un rimbalzo. Le armi andavano provate e non mi sono trattenuto. I due colpi, sparati in rapida successione, hanno dato un rinculo dolce con il modello MK VI grazie al peso significativo dell’arma in proporzione a quello del proiettile, assai più sostenuto con il MK III a causa delle palle da 620 grani.
L’accensione degli inneschi
L’accensione degli inneschi è stata immediata e non si è registrato quel ritardo che un cacciatore ad avancarica occasionale o alle prime armi teme; contenute la vampa e la nuvola prodotta dalla polvere nera, che ha permesso di doppiare il colpo conservando la perfetta consapevolezza del bersaglio. Andare a caccia ad avancarica, oltre a fornirmi l’opportunità di respirare un po’ di storia, mi ha anzitutto radicato la consapevolezza che i tanti luoghi comuni che le ruotano attorno sono coltivati da chi non ne ha esperienza. Successivamente, mi ha confermato che il cacciatore a polvere nera non è un soggetto patologico che si rassegna a un carniere vuoto, ma un appassionato che ha voglia di mettere in gioco se stesso e le proprie certezze e che dà più valore al gesto che al risultato. Che non bada alla quantità del carniere, ma alla sua qualità e alla destrezza necessaria per riempirlo. Senza voler nulla togliere al cacciatore a retrocarica, quale sono nato e in parte resterò, penso che l’imporsi un limite tecnico dia una maggior dignità al prelievo venatorio, arricchisca l’esperienza e favorisca un confronto leale con la natura.
Per info: Davide Pedersoli & C. Fabbrica d’armi
www.davidepedersoli.com