Cacciare a Palla n. 8 agosto 2019

Editoriale

Impariamo a salvarci

Recentemente è tornata d’attualità la vicenda di Chernobyl, la sconosciuta cittadina ucraina giunta alla ribalta della cronaca nell’aprile 1986 a causa del grave disastro nucleare verificatosi al reattore numero 4. Le cause dell’incidente furono individuate in mancanze da parte del personale – che scatenò l’inferno nel corso di un test di sicurezza – difetti di progettazione dell’impianto ed errata gestione. Una nuvola di materiale radioattivo fuoriuscì dal reattore rendendo inabitabile un’ampia area attorno alla centrale e contaminando l’Europa orientale, Italia inclusa.

Una miniserie televisiva in cinque puntate trasmessa da Sky a giugno ha riportato alla mente i fatti avvenuti. Le tante omissioni che seguirono il fatto, il tentativo di resistere alle prove e alle proprie responsabilità contribuirono al collasso di un sistema ideologico che, da lì a tre anni, sarebbe definitivamente crollato. Le morti dirette causate dall’esplosione e dall’esposizione alle radiazioni furono 66 ma è difficile quantificare quelle attribuibili all’incidente a distanza di tempo. Si passa dalle 4.000 stimate dall’Onu agli oltre sei milioni di quelle valutate da Greepeace. Oggi l’ex centrale nucleare sovietica rappresenta il centro di una zona di esclusione con un raggio di 30 chilometri, all’interno della quale è preclusa ogni attività umana. I 116.000 residenti furono tutti evacuati nell’immediatezza dell’evento, altri 100.000 negli anni successivi, e la fauna abbattuta. A distanza di oltre 30 anni dai fatti, la situazione all’interno della zona di esclusione impone delle riflessioni che, se non vogliamo definire filosofiche, portano comunque a dare un’interpretazione del nostro ruolo nella storia.

Perché, questo è il nocciolo della questione, la fusione incontrollata del reattore ha provocato conseguenze prevedibili nell’immediato ma meno scontate nel medio periodo. La zona di esclusione è una delle oasi naturali più ricche di biodiversità del pianeta. La fauna ha ripreso i suoi spazi e, dopo i casi di deformazioni dei feti riscontrati nei primi anni, non si registrano mutazioni particolari. C’è chi sostiene che questo sia dovuto all’aspettativa di vita degli animali, troppo breve per consentire lo sviluppo delle patologie più gravi, ma gli studiosi osservano come pure le conseguenze genetiche sulla fauna siano limitate.

Uno spunto di riflessione sulla vicenda mi è stato dato da un articolo a firma di Fabrizio Rondolino pubblicato in giugno sul Corriere della Sera. Ebbene, il giornalista scrive: “noi umani non abbiamo tutto questo potere, non siamo così importanti. Noi umani non siamo i signori della Terra né i padroni della natura, e per quanti disastri possiamo combinare restiamo insignificanti e marginali. Possiamo fare molto male a noi stessi, questo sì: ma neppure l’esplosione di una centrale nucleare riesce a cancellare la natura. Al contrario, la rende infinitamente più ricca e lussureggiante”. E ancora: “A me pare che questa storia contenga più di un insegnamento. Tanto per cominciare, cancella una volta per tutte le immagini apocalittiche legate al disastro nucleare: anziché un deserto dove sopravvivono giusto i coleotteri, come ci hanno insegnato i film di fantascienza e i rapporti degli esperti, il paesaggio post-atomico è invece una copia del Giardino dell’Eden prima che Dio ci creasse. O, detto in un altro modo: gli umani pacificamente intenti alla loro vita quotidiana sono più pericolosi per la natura dell’esplosione simultanea di 200 bombe di Hiroshima (questa è stata la potenza di Chernobyl)”.

Per un tragico contrappasso, l’essere umano è la sola vittima dell’incidente. Siamo noi – conclude Rondolino sostenuto dalle prove finora raccolte – gli unici esseri viventi che non possono vivere a Chernobyl.

Ciascuno può trovare una propria morale nell’analisi della situazione post-Chernobyl ma quella sostenuta dal giornalista, che trovo meritevole di un approfondimento, è che l’allontanamento dallo stato naturale ci aiuta a migliorare le nostre condizioni individuali, come dimostra l’allungamento dell’aspettativa di vita; ma pure che le nostre probabilità di sopravvivenza al di fuori della sfera tecnologica in cui siamo immersi fin dal concepimento decrescono in proporzione. Sostiene Rondolino: “l’apocalissi nucleare, che è poi il rovescio impaurito della nostra sfrenata ambizione prometeica a comandare l’universo, non è affatto un’apocalissi: tutt’al più è l’estinzione di una specie. La nostra”.

Questa lucida analisi non vuole minimizzare la questione delle conseguenze delle nostre azioni nei confronti delle future generazioni e della natura che ci è stata affidata. Ma serve a porre un argine alla deriva catastrofista di certe campagne ambientaliste, che fanno della nostra specie la colpevole di qualsiasi evento naturale. Forse, e mi unisco alla voce di Rondolino, non è l’ambiente che dobbiamo salvare.

Ma noi stessi.

Matteo Brogi