Editoriale
Crescere si può
Una menzogna ripetuta diventa realtà e nell’epoca delle fake news è ancora più facile che questo accada. Si rinuncia all’analisi, non si fa esercizio critico, si prende per vero quanto ci fa comodo e viene veicolato da un’informazione di parte, che ha abdicato a ogni principio deontologico, irrispettosa del principio di verità, e si scatenano assurde catene di disinformazione in cui nessuno paga per le falsità che diffonde. Purtroppo non ne siamo immuni neanche noi cacciatori. È la storia del lupo, ad esempio. Sui social girano video virali che a distanza di anni tornano in auge per giustificare le reazioni più strampalate e prese di posizione apocalittiche. In un senso e nell’altro. Questo è tanto più grave se messo in pratica da noi cacciatori, che dobbiamo lottare duramente per difendere la nostra onorabilità, cosa che possiamo fare solo con l’autorevolezza, ispirandoci alla scienza che, almeno in campo ambientale, deve dare indicazioni, imprimere una direzione e, quando necessario, ispirare il cambiamento. Quella delle fake news o delle notizie tendenziose non è una peculiarità del nostro mondo. Certo in Italia la questione è virulenta, ma di una virulenza sostanzialmente ingenua. Se affrontati con razionalità, gli attacchi che subiamo si possono disinnescare sul nascere. Se, appunto, affrontati con razionalità. E anche avendo i principali organi d’informazione contro. Perché gli italiani sono assai più intelligenti di chi cerca di far passare messaggi politici grandiosi solo per la loro irrilevanza. Sarà la crisi della politica tradizionale, la disaffezione nei confronti delle idee, la non incisività dei partiti, ma l’italiano è vaccinato e mediamente più saggio di quanto si voglia far credere.
Una volta era l’ideologia che aspirava a modelli politici molto forti ad accecare, oggi sono idee più subdole, emergenze e priorità che l’italiano medio non sente come tali ma propalate e amplificate come se fossero essenziali per lo sviluppo morale del genere umano.
Per noi cacciatori, vogliono farci credere, in questo mondo non si sarebbe posto. Usiamo armi, uccidiamo animali selvatici e questo non è in linea con un pensiero in cui si confonde la legittima aspirazione a ridurre la conflittualità nel mondo con l’annichilimento di qualsiasi idea, principio, morale, ideale. Un mondo piatto, in cui ciascuno è libero di fare ciò che vuole nel proprio microcosmo. Un mondo in cui le relazioni umane sono regolate da rigide norme di comportamento in cui quello che non si può dire è più ingombrante di quanto si può dire. Non so onestamente se questo sia un disegno organizzato e non lo credo. Però ci troviamo a combattere contro un nemico subdolo che è stato in grado di spostare a suo piacimento la linea di demarcazione tra ciò che è giusto e ciò che non lo è e tende ad annientare quanto fuoriesca dai suoi schemi. Ecco quindi che difendere la caccia e i cacciatori diventa una scelta di campo, una scelta di civiltà. E non solo per la salvaguardia della nostra passione, ma per la stessa salvezza del genere umano.
Torno all’incipit di questo editoriale. Anche il New York Times ha scelto di comunicare messaggi fuorvianti – insistendo nell’associare il bracconaggio alla pratica venatoria in occasione del prelievo illegale di due orsi in Alaska.
L’equazione bracconaggio uguale caccia ha trovato un’altra voce acritica. Perché al tempo stesso è passato sotto silenzio un fenomeno di bracconaggio organizzato e finalizzato al commercio del corno del saiga della Russia (Saiga tatarica), avvenuto in Kazakistan a fine gennaio, raccontato invece dalla BBC e che ha portato alla morte di un ranger, padre di famiglia, ucciso perché cercava di fare il proprio dovere. Difendere una specie che in una decina d’anni, a partire dagli anni Novanta, si è ridotto da una popolazione di mezzo milione di esemplari a 20.000. Ma ci sono morti che non fanno notizia e Yerlan Nurgaliev è uno di loro. Così come non fanno notizia i ranger che muoiono in Africa vittime di commerci illegali collegati a terrorismo e traffici che depauperano un intero continente a vantaggio di pochissimi.
Ma il dito, quando si parla di riduzione delle specie, è sempre puntato sui cacciatori, che pure sono responsabili di una frazione infinitesimale del prelievo. Sempre ponderato e programmato ai fini della conservazione delle specie. Quale sia la soluzione a questo stato di cose nessuno lo sa. Io credo che l’allargamento della nostra base, che invece va restringendosi sempre di più, sia la prima azione che possiamo intraprendere. Non voglio dire che sia necessario tornare ai 2 milioni di cacciatori di 30 anni fa, un numero insostenibile allora e ancor di più oggi, ma è necessario ampliare il numero di sportivi che praticano sport con le armi, di gourmet che apprezzano la carne di selvaggina, di appassionati di vita all’aria aperta. Oltre che di cacciatori, se possibile. Nel reportage sullo Shot Show ho dato spazio alle iniziative intraprese in America in questo senso.
Con le dovute differenze e contestualizzando il tutto alla realtà europea, dovremmo fare lo stesso anche noi. E potremmo farlo se le differenze che ci dividono fossero tra loro in competizione per farci essere cacciatori migliori.
Invece che condannarci all’irrilevanza.
Matteo Brogi