Editoriale
Colonialismo intellettuale
L’opposizione nei confronti della caccia si fa sempre più aggressiva e, per raggiungere il suo fine ultimo, non esita a utilizzare metodi subdoli quale il ricorso alla disinformazione. La strategia è quella di sfruttare dati falsi raccolti in contesti antiscientifici oppure veri ma estrapolati dal contesto per alimentare una forte opposizione morale e puramente umorale. Particolarmente soggetto a cadere nel tranello e a lasciarsi ingannare è chi trascura di documentarsi in maniera indipendente oppure è alla ricerca di conferme ai propri pregiudizi. Un ritratto che descrive perfettamente il militante medio dell’ecologismo. Ogni riferimento ai milioni di ragazzi che affollano le piazze è puramente casuale perché, in questo caso, l’inganno è perpetrato dall’alto e particolarmente odioso in quanto si accanisce su soggetti che devono ancora sviluppare un autonomo senso critico e dovrebbero essere guidati con un minimo di responsabilità da insegnanti e ministri. Che, invece, benedicono gli scioperi dei Fridays for future anche se sono a capo del dicastero dell’Istruzione.
La cultura si fa sui banchi di scuola, non nelle piazze. Ma questo è un altro discorso.
Tra le informazioni ingannevoli usate impropriamente contro la caccia, nelle scorse settimane è stato enfatizzato un dato pubblicato in un report del CIC (International council for game and wildlife conservation) e della FAO (Food and agriculture organization of the United Nations) che, descrivendo la situazione del trophy hunting in Tanzania nel 2008, denunciava come solo il 3% dei ricavi ottenuti si riversava in benefici per il territorio. Il dato, preciso e puntuale, descrive la situazione di un Paese in un dato periodo, ormai storico per la gestione della caccia africana, ma è stato utilizzato per estendere il biasimo alla caccia in generale, con un approccio che è difficile non considerare ingannevole.
Non è mio scopo in questa occasione difendere la caccia africana, perché è ormai evidente a chiunque si approcci al tema senza preclusioni che questa presenta numerosi effetti benefici sull’impiego, i salari, la varietà della dieta, la riduzione del conflitto uomo-fauna, la responsabilizzazione delle comunità locali, il miglioramento delle infrastrutture, il rafforzamento di politiche locali virtuose volte alla conservazione della biodiversità. È innegabile che, laddove la fauna acquisisce un valore e questo valore è di tutti, sarà per prima la comunità locale a farsene carico, con effetti benefici a cascata sulla conservazione delle specie a rischio, che per noi pasciuti occidentali è l’obiettivo primario. Al dato sfruttato dalle associazioni ambientaliste per gettare ulteriore discredito sulla caccia si possono contrapporre quelli di altri Paesi virtuosi, come la Namibia e lo Zimbabwe, dove rispettivamente il 100% e il 55% dei ricavi vengono oggi distribuiti tra la comunità locale.
Chi volesse davvero informarsi, dovrebbe leggere un appello pubblicato su Science magazine, una rivista scientifica dell’American Association for the Advancement of Science, pubblicata dal 1880 e con 130.000 abbonati, dal titolo piuttosto evocativo: Trophy hunting bans imperil biodiversity (La messa al bando della caccia ai trofei mette in pericolo la biodiversità). Un numero cospicuo di scienziati di tutto il mondo (133), molti tra i quali avversano l’esercizio venatorio, ha evidenziato congiuntamente che i bandi all’importazione o all’esercizio della caccia in mete esotiche ha effetti negativi sulla conservazione delle specie.
La questione dei bandi sta diventando il vero campo di battaglia e limitazioni si contano già in USA, Australia, Olanda, Francia e nel Regno Unito è prevedibile che accada qualcosa di simile a breve. Per gli scienziati firmatari non ci sono evidenze che maggiori limiti alla caccia producano un miglioramento alla salute della fauna mentre è elevato il rischio di un’ulteriore conversione delle terre a usi differenti (agricoltura e pastorizia) con significativa perdita di habitat per le specie più sensibili. Se ben gestito, questo è il punto su cui lavorare, un prelievo regolamentato ha solo effetti benefici, come ampiamente dimostrato dove si riesce ad attuarlo, per la fauna e per la popolazione locale, e non solo per mancanza di valide alternative (il turismo fotografico non è in grado di raggiungere i numeri della “caccia grossa”).
Questo è confermato dallo IUCN (International union for conservation of Nature) ed è particolarmente vero oggi, un tempo in cui numerosi Paesi africani reclamano un New deal che consenta loro di ottenere quell’autodeterminazione indispensabile per ridurre la povertà e restituire alle comunità locali una nuova dignità. Tornando al Regno Unito, è notizia recente che il nuovo governo – quello che dovrebbe gestire le ultime fasi della Brexit dopo l’inconcludente lavoro del precedente – cercherà in parlamento una maggioranza per introdurre un bando ai trofei provenienti da attività venatoria in Africa.
Questa notizia, e il suo tempismo, conferma se mai ce ne fosse bisogno che, dove non arriva l’ideologia, arriva il calcolo politico. In questo caso quello del leader di una nazione che si confronta con un evento epocale, dibattuto e divisivo. E la caccia diventa uno strumento di distrazione di massa, per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da questioni più impattanti sul proprio futuro. La posizione del governo di Londra, anch’essa, si basa su presupposti anti-scientifici ammantandosi di un moralismo che cela un’arroganza neocoloniale nei confronti delle nazioni africane e della loro capacità di gestire autonomamente le loro risorse.
Matteo Brogi