Editoriale
Carne finta o sostenibilità vera?
La parola chiave è emulazione. Beyond meat e Impossible food sono due aziende – entrambe californiane – il cui obiettivo è sviluppare e commercializzare prodotti proteici a base vegetale più sani, più gustosi e più sostenibili che riproducano il sapore della carne, del pesce, del latte, del formaggio e delle uova. Principalmente sostituti della carne, per farla breve, che della carne emulino il sapore senza però scontrarsi con le questioni che ossessionano il consumatore contemporaneo in termini di sostenibilità, salute ed etica. Il tema è stato esplorato con attenzione da David Julian McClements, professore emerito della University of Massachusetts Amherste, autore del saggio Future foods: how modern science is transforming the way we eat.
Sembrerebbero cose da vegetariani ma il tema è molto più complesso perché, dietro questi progetti e la scienza che li sostiene, ci sono investimenti e innovazioni che rendono il settore molto dinamico. Non a caso il National institute of food and agricolture americano sta monitorando gli studi perché ne vede i possibili impatti sul futuro dell’alimentazione umana. Specie in un’epoca in cui il consumo di carne continua a crescere con tutti i corollari che ne conseguono: deforestazione, ulteriore sviluppo delle monocolture, emissione di gas serra, inquinamento causato dagli allevamenti industriali.
Il giorno in cui saremo costretti dallo spirito dei tempi a consumare burger a base di tofu e ragù di soia sono ancora lontani e forse non si concretizzeranno mai. Però l’interesse per gli alimenti a base vegetale è in crescita. Anche se non sono stati ancora risolti i problemi della dieta vegetariana che, da un punto di vista nutrizionale, è carente di elementi nutrienti come la vitamina D, il calcio e lo zinco naturalmente presenti negli alimenti di origine animale. Inoltre, i moderni sostituti della carne sono ricchi di grassi saturi, sale e zucchero che a loro volta sono dannosi per la salute umana se assunti in quantitativi eccedenti al fabbisogno.
Insomma, appurato che una dieta a base vegetale non è necessariamente migliore di una onnivora, e che anzi può essere dannosa per la salute senza produrre un netto vantaggio nella lotta all’inquinamento, le motivazioni plausibili che la sostengono restano quelle legate all’etica della sofferenza animale e alla sostenibilità.
Sul primo tema è difficile trovare una sintesi con sensibilità differenti dalle nostre; mentre sul secondo è lecito domandarsi perché alla caccia non possa essere associata la patente di sostenibilità. Nel 2017 il Wwf ha stipulato un accordo per la pesca sostenibile con Balton group, proprietario tra l’altro del marchio di tonno in scatola Rio mare. Tra gli obiettivi del gruppo multinazionale – presente in 146 Paesi con oltre 11.000 dipendenti – c’è un impegno alla sostenibilità che “inizia con l’approvvigionamento e si sviluppa lungo la filiera produttiva per garantire un uso sostenibile delle risorse naturali e delle materie prime e assicurare la tracciabilità dei prodotti”.
Impegno senz’altro lodevole che può produrre un impatto positivo sulla salute dei mari e migliorare la trasparenza nel mercato dei prodotti ittici. All’epoca dell’ufficializzazione del partenariato, il direttore generale di Wwf Italia dichiarava che “uno degli obiettivi della collaborazione è anche sensibilizzare i consumatori sull’importanza di acquistare prodotti provenienti da pesca sostenibile e sulle ricadute positive che questi hanno sulle economie dei paesi locali”.
Faccio mia una domanda che si è già posto Franco Zunino, direttore generale dell’Associazione italiana per la wilderness: ma i pesci sono o non sono fauna? Perché se lo sono – e mi pare pacifico – continuo a non capire questa politica dei due pesi e delle due misure e il pregiudizio nei confronti della pratica venatoria da parte del mondo ambientalista e di parte della pubblica opinione. Qual è la differenza che caratterizza l’esigenza di conservazione del tonno rispetto a quella del capriolo? Forse l’intento commerciale? Se così fosse basterebbe guardare all’Europa centrale e settentrionale, dove esiste anche una gestione faunistica appunto commerciale e la caccia è ben integrata tra gli strumenti di tutela dell’ambiente.
Al di là delle provocazioni, è bene che del tema si continui a parlare perché la conservazione dell’ambiente e l’utilizzo sostenibile delle sue risorse rinnovabili passa anche dalla definitiva legittimazione della caccia.
Matteo Brogi