Editoriale
Un deficit di natura
Il tema della conservazione dell’ambiente e della biodiversità è costantemente dibattuto in sedi e contesti tra loro diversissimi. Di volta in volta vengono identificati nuovi nemici con alcune attività sul banco degli imputati a dispetto del loro debolissimo impatto sull’equilibrio naturale. Che, peraltro, nel caso della caccia è tutto da dimostrare là dove si configuri come reale attività di gestione. In un contesto in cui è difficile realizzare stili di vita ecologicamente compatibili, addossare le colpe e quindi condannare pratiche come l’esercizio venatorio è la soluzione più semplice ma non sposta di una virgola la questione cruciale del confronto: ridurre l’impatto antropico sull’ambiente.
Parliamo allora di ambientalismo e di ambientalisti da salotto. Nella maggioranza dei casi questa categoria – limitata di numero ma in grado di costituire un temutissimo gruppo di pressione – tende a occuparsi di cani, gatti e piccioni. Di agnelli a Pasqua e vitelli a giorni alterni quando cresce il fondamentalismo ideologico. Di oche se si tratta di condannare la produzione di foie gras. E di cinghiali che invadono gli ambienti cittadini se qualche amministratore propone di risolvere in maniera radicale il problema.
L’ambientalista medio non ha esperienza diretta dell’ambiente e il suo orizzonte si ferma all’ultimo muro della città in cui vive. Però si indigna per l’abbattimento di una giraffa che non ha mai visto perché avversa gli zoo e manifesta contro i circhi. Il massimo di selvaticità di cui ha esperienza è quella dei piccioni di città. Animali che prosperano sui nostri tetti a causa della mancanza di predatori naturali nell’ambiente urbano e che possono raggiungere densità tra le centinaia e le migliaia di esemplari per chilometro quadrato. Diventando vettori di malattie e parassiti. Ma da tutelare a prescindere, contrastando ogni azione energica come, per esempio, la lotta biologica. Troppo estrema per chi non ha mai messo piede in un bosco.
Che cosa ne possono sapere questi ambientalisti di fauna selvatica, di capacità portante del territorio, di biodiversità? Nulla. Loro pensano al gattino, al singolo capriolo (ma il discorso non cambia se parliamo di fagiani, camosci, orsi e lupi), non alla specie; al dettaglio anziché al totale.
Sono quelli del “ci meritiamo l’estinzione” perché ritengono che la salvaguardia dell’ambiente valga più della nostra vita. Sarebbe bene che continuassero a occuparsi di canili e gattili. Lo fanno bene e potrebbero così soddisfare i propri bisogni di cura e accudimento senza fare danni. Senza rischiare di bloccare settori sensibili come quello della sperimentazione dei farmaci, per esempio, dove l’uomo “ha il dovere morale di non far soffrire gli animali inutilmente ma, cionondimeno, ha la responsabilità di proteggere la sopravvivenza della propria specie”. La citazione è tratta da un’intervista a Giuseppe Remuzzi, direttore di quell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri in cui abbiamo imparato a confidare in questi tempi di pandemia.
L’uomo ha sempre impattato sull’ambiente con il suo semplice esistere. Oggi lo sappiamo e tentiamo di ridurre la nostra impronta ecologica. Cerchiamo di riequilibrare l’impatto della nostra presenza nella consapevolezza che non esistono più terre incontaminate. La frontiera estrema del selvatico è ormai perduta per sempre in gran parte del mondo.
La caccia si colloca tra le attività che possono avere un impatto virtuoso sull’ambiente. Sia in termini gestionali, sia per quanto riguarda il presidio del territorio. Le voci che dall’interno del nostro mondo stanno cercando di proporre soluzioni – innescando un dibattito anche acceso, per esempio sui modelli gestionali – è la prova che qualcosa si sta muovendo. Sarebbe bello che dall’altra parte, tra gli ambientalisti, ci fossero degli interlocutori formati e aperti al dialogo. Persone per le quali l’educazione ambientale non si fa con il piccione di città e che non soffrono di quello che gli americani hanno definito “disturbo da deficit di natura”. Associazioni ambiziose, disposte a confrontarsi. La chiave per arrivarci è tornare a vivere, a spiegare e a far capire la natura, appunto, alle più giovani generazioni.
Matteo Brogi