Editoriale
Differenze
Tra specie-serbatoio, superdiffusori e spillover, nel corso della pandemia che ancora minaccia di mettere a rischio salute, socialità ed economia in un futuro prossimo gli italiani hanno imparato a confrontarsi con terminologie nuove e problematiche che si ritenevano confinate in aree lontane del pianeta. Se ancora si discute dell’origine del Covid-19 – e c’è spazio per congetture che implicano la responsabilità umana – molto di più sappiamo sulla sua diffusione, attribuita tramite un salto di specie a condotte poco prudenti. Il consumo di specie potenziali serbatoi di malattie trasmissibili all’uomo e l’esistenza di zone promiscue all’interno delle quali la possibilità di trasmissione è enfatizzata (i cosiddetti wet market, mercati dove gli animali vengono esposti e macellati vivi). Situazioni che rappresentano un vero rischio di salute pubblica: ebola, sars, mers, Hiv, influenza aviaria e suina – le principali epidemie degli ultimi anni – sono infatti di origine animale.
Logica conseguenza di questa consapevolezza, la Cina ha attuato una serie di misure per contenere il rischio. Tra queste, il ministero dell’Agricoltura e degli Affari rurali ha diffuso una nuova lista delle specie animali terrestri che per legge sono destinabili al consumo umano. Per la prima sono esclusi cani e gatti, animali d’affezione nella nostra cultura ma ancora parte della tradizione gastronomica cinese. A questa misura che soddisfa più gli animalisti che le reali esigenze di salute pubblica, si affianca un bando rafforzato al commercio illegale di animali selvatici e la caccia e il consumo di animali selvatici per cinque anni.
Allo stesso tempo, vengono offerti incentivi economici agli allevatori per la transizione verso mezzi di sussistenza alternativi come la coltivazione di frutta, verdura, piante da tè o erbe per la medicina tradizionale cinese. Il problema è che, tra le specie il cui allevamento si cerca di sopprimere, sono incluse oche e cervi, decisione che provoca una riflessione da parte nostra.
L’impatto della specie umana sulla Terra non può essere privo di conseguenze. Come ho scritto in più occasioni, la valutazione di questo impatto è influenzata dal sistema di valori che ci diamo e dall’importanza che attribuiamo alle nostre necessità. Qui subentrano considerazioni di ambito filosofico, morale, addirittura religioso che non è mia intenzione analizzare in questa occasione. Certo è, però, che parte dell’opinione pubblica sembra aspirare alla conservazione fine a se stessa dell’ambiente, considerando la nostra stessa presenza sulla Terra come un disturbo. Credo che questa posizione non sia sostenibile.
Per valutare la nostra impronta negativa sull’ambiente vale la pena di analizzare due aspetti. Il primo è quello legato all’impatto che credenze e tradizioni possono avere sulla fauna. Si pensi alle doti che le culture orientali associano a certi elementi quali le ossa di tigre e il corno di rinoceronte, per esempio: oggi queste due specie sono in pericolo di estinzione e il bando alla loro uccisione ha prodotto un traffico illegale fiorentissimo con implicazioni anche nel finanziamento di cellule terroristiche (si stima che il mercato valga tra gli 8 e i 20 miliardi di dollari all’anno). Secondo punto è la riduzione delle barriere naturali che per secoli hanno creato un argine al contatto tra specie e quindi al contagio.
Secondo i dati dell’associazione intergovernativa Ipbes (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services), che per conto dell’Onu si occupa di biodiversità ed ecosistemi, il 75% dell’ambiente terrestre e circa il 66% di quello marino sono stati modificati in modo significativo e circa 1 milione di specie animali e vegetali è a rischio estinzione (secondo il Wwf, il 60% delle popolazioni di invertebrati si è estinta nel corso degli ultimi 40 anni). Considerando che in 50 anni la popolazione umana è raddoppiata, è inevitabile collegare a questo fatto una maggior domanda di risorse, all’impoverimento delle risorse naturali e all’aumento dell’inquinamento.
I problemi in campo sono molti e sono stati identificati. La questione, semmai, è individuare una soluzione per conservare la salute pubblica, la biodiversità e la sopravvivenza delle specie oggetto di un prevalente interesse da parte dell’uomo. Qui ci giochiamo la battaglia con le associazioni che riescono a far valere la propria reputazione e un approccio scientifico – anche se di parte – alla questione. Bisogna stare attenti, perché il passo tra sospendere il consumo di fauna selvatica, il bando richiesto a più voci del cosiddetto trophy hunting (che oggi riguarda specie esotiche ma un domani potrebbe coerentemente riguardare quelle di casa nostra) e la pretesa di chiudere la caccia è molto breve.
Deve essere ben chiaro che la differenza tra mangiare un pipistrello ucciso in un mercato di Wuhan e un capriolo abbattuto nel suo habitat naturale è cosa completamente differente. Che la caccia è un’attività legale, che si svolge secondo linee scientifiche promosse da organismi super partes, e addirittura uno strumento indispensabile per risolvere i conflitti e ristabilire gli equilibri tra uomo e fauna. Che una filiera sicura e trasparente, pertanto tracciabile, della carne di selvaggina è la chiave per ottimizzare lo sfruttamento delle risorse e fornire proteine sane. Dobbiamo gridarlo a gran voce, perché tutto il resto è demagogia.
Matteo Brogi