Editoriale
Comunicare bene
Anche gli ultimi tempi hanno proposto alla comunità dei cacciatori i vecchi dilemmi: come reagire agli attacchi pregiudiziali nei proprio confronti e fornire una positiva immagine pubblica di sé. Il pretesto lo ha fornito un botta a risposto a suon di murales. Il primo, sponsorizzato dalle associazioni contrarie alla caccia, ci ha disegnato come i soliti biechi sanguinari; la risposta, da parte di alcune associazioni venatorie, ha subito varie forme di censura.
In un mondo in cui le opinioni finiscono sempre per radicalizzarsi, in cui la demonizzazione dell’avversario è alla base del confronto e si fa comunicazione senza esclusione di colpi per delegittimare l’interlocutore, la cosa non mi stupisce. E mi conforta il fatto che qualcuno si prenda la briga di contrastare i messaggi che ci dipingono in maniera oltraggiosa. È il gioco delle parti, va bene così.
Quello che voglio segnalare è però l’inadeguatezza della nostra risposta. Non è cosa nuova, peraltro. Il vittimismo non fa per noi e non sarà certo un cartellone a cambiare la nostra reputazione. Non servirà a convincere nessuno che siamo migliori di come ci descrivono, anzi diventa quasi una resa all’evidenza di una subalternità psicologica e culturale nei confronti di chi ci dà addosso.
Comunicare efficacemente significa esprimere al meglio se stessi e instaurare relazioni soddisfacenti nelle quali condividere bisogni, valori e obiettivi. Lo si può fare con un canale che possiamo identificare nell’industria culturale primaria (editoria, cinematografia, scuola) e con una cosiddetta secondaria legata al mondo della pubblicità (i murales, per esempio), che serve a rafforzare il messaggio ed estenderne la fruizione. Nel primo caso la stampa di settore fa la sua parte e sarebbe auspicabile che il messaggio valicasse i confini della nostra comunità per raggiungere in maniera laica chi non la pensa come noi o è agnostico nei confronti della nostra passione. È questo il punto nodale della questione: uscire dalle nostre mura è la cosa più difficile, raggiungere pubblici nuovi è il limite che ci viene negato dal pregiudizio.
Da questo mese Caccia Magazine propone la rubrica Voci controvento che, quando gli incontri che facciamo ce ne daranno l’opportunità, coinvolgerà persone estranee al mondo della caccia che nei suoi confronti non hanno una visione preconcetta. L’obiettivo non è banalmente fare proseliti, e neppure comunicare che la caccia è bella. L’obiettivo, piuttosto, è quello di comunicare con maggior efficacia la nostra passione descrivendola in maniera neutra, che non sia percepita come la solita difesa di una categoria messa all’angolo dal pensiero dominante. E l’obiettivo è ancora quello di far crescere la reputazione del cacciatore e aumentarne l’accettazione sociale, così da portare allo scoperto opinioni che spesso vengono nascoste per paura di incappare nella disapprovazione pubblica.
In questo periodo ha fatto bene al nostro mondo un’inchiesta sulla caccia uscita sulle pagine del Gambero Rosso. Non l’ennesimo articolo gastronomico di ricette o di esaltazione delle qualità organolettiche delle carni di selvaggina, ma un pezzo dedicato alla legittimità del prelievo venatorio. Un’inchiesta che si affianca alle richieste di scrivere di caccia che mi sono state formulate da #Natura, la rivista dei Carabinieri forestali, e Tempi, periodico di ispirazione cattolica. Confrontarmi su un terreno conosciuto con gli strumenti che mi sono congeniali (la scrittura) è stata un’occasione che ho colto con piacere con l’obiettivo di raggiungere una platea nuova non necessariamente ostile. Coinvolgere contesti terzi alla perenne diatriba tra cacciatori e animalisti è la chiave per non relegare il messaggio alle solite conversazioni disilluse tra cacciatori.
Torno al tema della pubblicità, quello che ho definito come industria culturale secondaria. Ebbene, in questo caso lo sforzo è ancora più complesso. Non tanto perché ci viene impedito il raggiungimento del canale d’informazione (basta avere un’idea, pagare una tipografia e il servizio comunale di affissioni e il gioco è fatto) quanto perché l’incisività del messaggio è cruciale. Uno slogan e un’immagine devono riassumere un messaggio efficace agli occhi dell’osservatore distratto. E il messaggio deve sì parlare alla testa, alla razionalità dell’interlocutore, ma non può trascurarne le emozioni, entrando in empatia con il suo cuore. I pubblicitari sostengono che la reputazione di un marchio (e la decisione dell’acquisto di un bene) viene pilotato al 70% da una base emotiva. Noi, per comunicare in maniera efficace e “vendere la caccia”, dobbiamo prima procedere a una pulizia al nostro interno. Dobbiamo contrastare attivamente chi non rispetta le regole, combattere i fenomeni illeciti, evitare l’esposizione di scene cruenti fini a se stesse sui canali social, annullare i comportamenti di una minoranza rumorosa a livello mediatico per stimolare invece i comportamenti virtuosi. Nel fare comunicazione, dobbiamo affidarci a chi sa farla, sa ideare una strategia e modulare il messaggio tra razionalità ed emotività. Togliamo la comunicazione della caccia ai cacciatori, ce ne gioveremo tutti.
Matteo Brogi