Editoriale
Se l’ambientalismo diventa religione
Le recenti dimissioni di Lorenzo Fioramonti, ministro dell’Istruzione, dell’università e della ricerca nel secondo governo Conte, hanno avuto importanti ripercussioni politiche che hanno necessariamente trascurato alcuni punti chiave nel pensiero dell’esponente politico del Movimento 5 stelle.
Il ministro, infatti, al momento del suo insediamento, aveva proposto di introdurre nel sistema formativo italiano una nuova materia obbligatoria: il cambiamento climatico. Così da adattare “l’intero curriculum scolastico alla comprensione dello sviluppo sostenibile” unendo materie come geografia, scienze, fisica e accompagnando “i giovani a essere autori di quel cambiamento della società che loro stessi chiedono”. Suo scopo, come dichiarato nelle interviste dello scorso settembre e replicato successivamente, “è rendere il sistema educativo italiano il primo che mette l’ambiente e la società al centro di tutto ciò che impariamo a scuola”.
Quella di Fioramonti non è un’opinione isolata, anzi si tratta di una linea d’azione che si ispira all’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Ed è probabile che simili posizioni prendano sempre più piede anche all’interno della comunità scientifica, che già attribuisce ai cambiamenti climatici un peso determinante nella trasformazione del globo.
La questione climatica, e ancor più ambientale, da molto tempo cerca un colpevole umano. Come se l’uomo e le sue attività fossero – anzi, dovessero essere – i responsabili di ogni nefandezza. Una volta accertato che l’impronta della nostra specie non può essere insignificante nei processi (lo dice il buonsenso), bisogna però riflettere sul fatto che forse il nostro impatto non è tale da governare in maniera tanto negativa la questione climatica (lo dice la scienza).
Viene spesso taciuto che solo il 5% dell’anidride carbonica immessa nell’atmosfera è causata dall’uomo, con una significativa preponderanza quindi di quella immessa per fattori naturali (l’attività vulcanica in primis). Così la questione si trasforma da un’emergenza in una condanna della nostra civiltà in quanto tale e in una nuova religione, pagana e anti umana, in cui la salvezza è nelle mani dell’uomo stesso ma a scapito della sua umanità.
Salviamo il pianeta dall’uomo, trasformiamolo in un valore in sé a prescindere dal suo fruitore. Salviamolo, quindi, ma non si sa più a favore di chi. E vengono proposte soluzioni fantasiose, “romantiche” come le ha ribattezzate l’eco-pragmatista Michael Shellenberger, nominato “eroe dell’ambiente” da Time magazine per il suo attivismo.
Ma le opzioni romantiche, sostiene Shellenberger, non fanno i conti con la realtà e usare “materie naturali al posto di quelle artificiali può essere disastroso per l’ambiente” come ha dimostrato, in un recente passato, la vicenda dell’olio di palma, che doveva salvare il pianeta ma ha scatenato una catastrofe superiore ai danni che voleva sanare.
Il fine ultimo per salvare la natura non è quindi quello di armonizzarsi con la natura stessa, quanto piuttosto puntare in maniera prudente sulle nuove tecnologie, sole in grado di aiutare “sia l’aumento della nostra prosperità sia la protezione dell’ambiente”.
Trattandosi di un tema che condiziona lo sviluppo della nostra civiltà, dobbiamo considerare la conservazione e l’ambientalismo con tutta la serietà che merita. L’ambiente va preservato, non ci sono dubbi, ma senza quel carattere iniziatico e catastrofista che pervade le piazze perché, attenzione, nessuna teoria scientifica trae autorevolezza dal consenso che raccoglie. E certe soluzioni proposte appunto dalle piazze (la riduzione della popolazione ambientale, giusto per fare un esempio) hanno implicazioni gravissime sulle scelte e la libertà degli individui. Non a caso ricordano dogmi imposti da sistemi totalitari che hanno prodotto economie – penso alla Cina – che contribuiscono in maniera massiccia al deterioramento dell’ambiente.
La pretesa di governare il clima, per concludere, è un’illusione che può portare a scelte drammatiche.
Meglio spingere, quindi, verso politiche di adattamento ai cambiamenti, aumentando gli investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica in questo senso.
Che cosa c’entra la caccia in tutto questo? Ebbene, in quanto attività umana che trae origine dalle radici più profonde dell’uomo e che lega l’uomo alla sua componente più naturale rappresenta l’antidoto a derive che intendono attribuire all’emozione o alla sola tecnica la salvezza del genere umano e dell’ambiente. Come attività sostenibile ed ecocompatibile, inoltre,
è una delle poche che può realmente definirsi a impatto zero sull’ambiente.
Matteo Brogi