La caccia con il cane da ferma è qualcosa di più complesso della fucilata e prima di pensare al fucile dovremmo pensare a come rendere il nostro territorio più sano e più adatto a ospitare gli animali che poi potremo andare a cercare col nostro cane.
La caccia con il cane da ferma è qualcosa di più complesso della fucilata. Prima di pensare a sparare dovremmo pensare a come rendere il nostro territorio più sano e più adatto a ospitare gli animali che poi andremo a cercare col nostro cane, godendo, prima di tutto, di belle azioni di caccia
C’è una frase che odio: «Hai visto che bella fucilata?» A cui segue di solito un sorriso compiaciuto. Lo so, sono inopportuno. Un cacciatore non dovrebbe stupirsi di un commento del genere poiché è una persona che va in giro con un’arma e ammazza gli animali che la legge gli consente di abbattere. Per molti l’esercizio del tiro è una componente fondamentale con cui misurare il proprio valore. Ma non per me.
Prima le emozioni, poi la fucilata
Confesso di aver sempre guardato con sospetto i grandi colpitori, quelli che dopo aver sparato ti lanciano uno sguardo ammiccante come a dire: «Visto di che cosa sono capace?» Io preferisco quelli che, dopo, rimangono storditi e rapiti dall’emozione del momento, che ancora non si capacitano che tutto sia stato così bello e perfetto.
Ricordo alcuni animali abbattuti senza che il cane fosse stato protagonista. Sono state solo fucilate, istintive, inevitabili, ma solo fucilate non precedute, né seguite da nessuno scuotimento emotivo. E non perché non ritenga importante l’abbattimento, anzi, trovo che sia un momento di grande soddisfazione, ma a condizioni precise e cioè che sia anticipato da un’azione di caccia emozionante.
La caccia con il cane da ferma è “affare” complesso
Mi piace il selvatico caldo tra le mani, rimirarne le fattezze, la bellezza della livrea, accarezzarne il piumaggio per ricomporlo dallo sciupìo determinato dalla fucilata o dalla caduta o dal riporto del cane. Mi piace annusarlo. Per me la caccia è qualcosa di più complesso e articolato e che culmina, poi, con l’abbattimento della selvaggina che perseguo.
E oltre a un poi c’è anche un però. Ogni volta che ammazzo un animale, questo sparisce, non c’è più e con la sua uccisione io determino un’assenza. Di questo ne sono totalmente consapevole. Ma andiamo nel concreto. Se la zona dove caccio è piena di cinghiali, nessuno scrupolo emotivo, né morale mi impedisce di sentirmi pienamente felice e legittimato nel portare a termine un’azione di caccia ben congegnata e finalizzata su questi animali. Anzi, in questo caso il mio intervento sulla riduzione di questa specie è addirittura auspicabile e meritorio, dato il proliferare incontrollato di questo selvatico che, a tutt’oggi, risulta specie vincente e in costante aumento.
Ma io non caccio cinghiali. E, purtroppo, le stesse considerazioni non si possono fare su altre specie che, a causa della presenza fortemente impattante dell’uomo sul territorio, stanno subendo un costante decremento.
Un cacciatore soddisfatto è anche educato
Che senso ha andare a caccia di un selvatico che non c’è? Chelini – mi disse l’indimenticato Franco Perco – diceva che un cacciatore soddisfatto è anche un cacciatore educato. Chissà se è vero e, al contempo, rifletto che è forse per questo motivo che noi cacciatori talvolta siamo maleducati, irrispettosi, poveri di etica e profondamente ridicoli, patetici nel cercare di perseguire emozioni che non sono più raggiungibili per molti della nostra categoria, a meno che non si ripieghi su surrogati. Ritengo che cacciare cinghiali abbia senso: cacciare lepri o fagiani pure?
Il Cesare, che abita tra rotonde, zone industriali e zone commerciali in pianura padana, quando esce di casa è colto dallo sconforto. Lui ha il dispiacere di ricordarsi perfettamente quei territori come erano sessant’anni fa: un giardino. Piccoli appezzamenti coltivati, siepi ovunque a delimitarne i confini, fossi puliti, curati e in cui scorreva acqua limpida, canali collettori che li rifornivano costantemente di acqua. Stradine poderali segnate dal passaggio di birocci e cavalli, bianche e polverose, di una polvere così fine che affondarci il piede era piacere fisico. Questo era la pianura padana.
Le starne erano lì e pochi sprecavano cartucce per tirare loro una fucilata. Le lepri erano tante e, sebbene più perseguite delle prime, abbondavano. I campi di prati stabili e le marcite non erano stati livellati al laser e soppiantati dai mais ibridi e dalla soia transgenica. La luce del sole faceva il suo lavoro, non era ancora stata sostituita dal petrolio e la terra veniva nutrita di azoto con le rotazioni delle colture e con lo stallatico, non coi nitrati di sintesi.
La caccia non era solo rapina
C’era meno gente col fucile, la caccia non era solo rapina ma, purtroppo, i germi del consumismo venatorio – oltre che sociale – era già stati rovesciati nelle case, nel pensiero comune e nella vita di tutti. Arrivarono i fagiani pronta-caccia, da noi soprannominati remobozzi dal nome dell’assessore lombardo che ci propinò la caccia consumistica. Alè, fagiani ovunque e per tutti, anche per un bruciasiepi come mio padre che si stupiva e si entusiasmava di tanta abbondanza.
Poi comparvero altri animali. Chi aveva mai visto un gabbiano in pianura? E le cornacchie? Tutte quelle gazze? Erano i primi segni del proliferare delle discariche e del dilagare del nostro spreco: usare e gettare.
Ricordo mio padre gattonare sguisète e boarì (pispole e cutrettole) tra le vacche al pascolo della Badalasca (lo so, adesso si chiama Badalasco, ma a me piace di più chiamarla al femminile come allora) e bordeggiare siepi e fossi fischiando alle balie dal collare. Le vacche al pascolo nella pianura padana: voi le avete mai viste?
Le bandite erano garanzia di rifugio e rinnovo della stanziale per gli anni a venire. Per noi era una pacchia infilarci dietro le paline proibite per allenare i cani giovani, quando la caccia chiudeva o quando, terminate le cove, era possibile trovare nidiate sufficientemente mature e confidenti che davano al cucciolone la possibilità di crescere in esperienza dimostrando doti – quando ne aveva – e limiti. Parliamo di cinquanta, sessanta e oltre anni fa.
Non c’è caccia, né cinofilia senza selvaggina
Ma che senso ha, ora, parlare di cani bravi se non ci sono ambienti dove poterli portare e selvaggina da cercare? Che senso ha uscire di casa per bordeggiare una strada provinciale fitta di traffico, con una striscia di rifiuti che la delimita e la separa dai campi e dai fossi vicini, dove gli unici animali autenticamente selvatici sono le nutrie, le garzette, gli aironi, le arvicole, le volpi e i falchi?
Quando torno in Lombardia e vedo questo scempio, quando stento a riconoscere luoghi che trent’anni fa mi erano così familiari che potevi portarmici bendato e io, col solo annusare l’aria, ti avrei potuto dire con esattezza il sito, lo stato delle colture e gli animali presenti da me censiti in precedenza, mi si stringe il cuore. E conto i minuti che mi separano dal mio rientro nelle Marche.
Il senso dei nostri gesti
Che cosa c’entra tutto questo con la fucilata, anzi, la bella fucilata? C’entra, perché ritengo che abbiamo perso il senso e la consequenzialità dei nostri gesti. Penso che prima di pensare al fucile e al suo utilizzo dovremmo pensare al nostro territorio e a come lavorare per renderlo più bello, più sano, più adatto a ospitare gli animali che poi potremo andare a cercare col nostro cane bravo e magari abbatterli beandoci di una ferma e di una guidata squassante, di un riporto gongolante, di un recupero prodigioso.
Chelini, parlando di gestione venatoria, diceva che in Italia si mangia il grano quando è ancora in erba, paragonando la conduzione nostrana con quella di altri Paesi più avveduti. Era ottimista. Siamo arrivati al punto di mangiare la terra – inquinata – senza neppure avere seminato il grano. Abbiamo superato, oltrepassato il concetto – sbagliato – di uso della terra per arrivare addirittura all’usura di essa, a determinarne l’incapacità di resilienza perché il suo sfruttamento non prevede più un futuro riutilizzo, ma solo un rapido, immediato sfruttamento.
Le nostre colpe
E noi cacciatori che colpe abbiamo? Tante: politiche e strategiche, oggettive e perduranti. Che senso ha accapigliarsi con le associazioni protezionistiche o tra di noi quando, a ben vedere, coltiviamo interessi comuni? O non opporsi al consumo degradante del territorio nel nome di un’economia che ci ammazza? Perché fucilare tutto ciò che è possibile (e con mezzi sempre più sofisticati), sparare ad animali che invece ci servirebbe avere perché perpetuino la loro presenza con la riproduzione? Che senso ha, per contro, impedire gli abbattimenti di altri che stanno impoverendo habitat e distruggendo altre specie non tutelate?
Un ambiente sovrappopolato da cinghiali o da altri ungulati subisce un danno che si ripristina solo coi lustri o coi decenni, oltre alle perdite che determina alla selvaggina minuta. E perché cacciare i fagiani a settembre quando a novembre sarebbero animali bellissimi e completi? Che senso ha andare a beccacce con satellitari, beeper (e tra coloro che usano questi mezzi ci sono anche io) e con fucili a tre colpi?
Se eliminassimo tutta questa tecnologia (per dirla meglio, se eliminassimo l’uso sconsiderato di questa o se la usassimo correttamente) dalla caccia, non pensate che potremmo cacciare di più e trovare più animali ammazzandone meno?
A caccia senza troppe artificiosità
Immagino già le argomentazioni dei “cinofili” (tra virgolette): «Il satellitare serve per la sicurezza del cane; il beeper pure; io altrimenti non posso localizzarlo quando ferma o quando cerca, o dopo una seguita, o, o, o…». Ci manca solo di utilizzare i droni. I nostri nonni – che non sempre vanno presi come esempio, intendiamoci – sono andati a caccia senza queste artificiosità, con cani molto più equilibrati e più collegati: in una parola più normali.
Se il mio setter trova una beccaccia a 300 metri da me, saranno poi cavoli miei andarlo a cercare, sempre ammesso che lo trovi e nel frattempo la beccona non voli. Ti piacciono i cani a grande cerca? Rincorrili, se ci riesci. E se si perdono? Pazienza, dedicherai del tempo per andare a cercarli.
Toccherà a tutti fare qualche sacrificio
Smettiamola di prenderci in giro e di prendere in giro gli altri, è una tecnica che non funziona. Ciò che invece può funzionare è unire gli intenti, identificare gli obiettivi e poi perseguirli. Toccherà a tutti fare qualche sacrificio. Ma è un sacrificio ripulire le campagne? Programmare le colture da seminare e come farlo? Identificare i territori da dedicare al ripopolamento? Censire, catturare, liberare animali e controllare il territorio? Per chi ama la caccia non credo.
Non aspettiamo che siano altri a imporre le loro scelte o decisioni, cominciamo noi a dare indicazioni e numeri con l’aiuto di tecnici faunistici preparati e di tutte le professionalità che possiamo arruolare. Si può fare molto. Non chiamiamoci fuori giustificandoci dicendo che questo è il miglior mondo possibile e che se le cose stanno così non è colpa di nessuno. Nessuno, a ben vedere, è sempre il nome di qualcuno.
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