Caccia all’orso nero in America

Caccia all'orso nero

L’adrenalina raddoppia, la caccia all’orso nero aggiunge un brivido in più all’emozione solita della caccia. Anche il contesto, i canyon dell’Idaho, ha una buona parte per rendere questo viaggio indimenticabile.

Non c’è niente di più romantico della caccia a cavallo. Non c’è bisogno di concentrarci su ogni singolo passo: si ha la possibilità di osservare il paesaggio e la topografia della zona. E non c’è molto che batta la natura selvaggia della Frank Church- River of No Return Wilderness, in Idaho. A eccezione dell’Alaska, è la più ampia designated wilderness degli Stati Uniti: si estende su più di 930.000 ettari e il suo habitat incontaminato ospita cervo mulo, alce, cervo coda bianca, pecora delle Montagne rocciose, capra delle nevi, lince, coyote, puma e lupo grigio oltre alla bestia che avevo in cuore di insidiare: l’orso nero. Non è un’area in cui possano cacciare i deboli di cuore, e non solo perché il terreno è ripido e insidioso – spesso troppo ripido anche per i destrieri: si è completamente isolati dal mondo esterno, la miglior disintossicazione digitale possibile.

L’orso nero è un predatore meno feroce dell’orso bruno e del grizzly e in questa zona è noto per sfidare il suo stesso nome. Difatti non tutti gli orsi neri sono neri: anzi, qua ce ne sono alcuni, circa un quarto o un quinto, più chiari, dal marrone sabbia al rame intenso. E sono anche più piccoli che in molte altre zone: un maschio adulto può fermarsi al metro e mezzo. Il mio accompagnatore Adam Beaupre, titolare dell’Horse Creek Outfittes, mi aveva già spiegato che «se ne vediamo uno che raggiunge i 135 chili e il metro e 80, ci siamo». Era primavera, il momento in cui gli orsi si risvegliano dal letargo: Adam mi disse che era probabile che fossero meno pesanti del solito. E non solo. «Hanno bruciato tutto il loro grasso, così sono meno aggressivi rispetto ad altri mesi, quando avranno riacquisito peso. In primavera non tendono a spingersi troppo lontano: spesso un orso non si muove per più di 180-200 metri alla ricerca di insetti e vegetazione commestibile. La carne entra nella sua dieta solo per il 10%. Le sue zampe sono ancora fragili, ha bisogno di incrementare la propria forza».

Ci eravamo serviti di cavalli e muli per portare noi stessi e le provviste per la settimana al nostro accampamento nella Horse Creek. Adam aveva una mandria di 26 cavalli e per questo lavoro ne aveva usati 6-7, alti al garrese da un metro e mezzo a un metro e settanta. Anche se in generale preferiva i muli: «Costano meno e sono più intelligenti. È vero che, se si incappa in uno poco buono, poco buono e intelligente è una combinazione complicata; ma di solito sono più facili da gestire dei cavalli».

Spostarsi a cavallo ha un vantaggio ulteriore: si vede più selvaggina, si disturbano meno animali. Anche se secondo Adam i cavalli non sono sfruttati quanto dovuto: «In questi giorni spesso i cacciatori si spostano a piedi zaino in spalla o usano delle mountain bike sporchissime. Non è che ne sia particolarmente entusiasta». E si capisce perché, considerato il disturbo che possono arrecare.

Canyon

Disturbati dall’allestimento del campo, gli orsi si erano allontanati dai dintorni nonostante l’arrivo a cavallo. Così dovemmo scalare i fianchi dell’Horse Creek canyon per ottenere un po’ di vantaggio. Ma ciò significava dover sparare a una distanza relativamente lunga, ben oltre i 200 metri.

Era un modo per mettere a fuoco una delle differenze tra cacciatori europei e americani. Negli Stati Uniti non è infrequente sparare senza troppi problemi a distanze maggiori che in Europa; d’altro canto, ai cacciatori americani non è familiare l’idea di sparare a selvatici in corsa, come avviene nella braccata al cinghiale. In ogni caso, per tiri un po’ più lunghi del solito sono poche, ma cruciali, le cose che servono: pratica e competenza a distanze diverse, attrezzatura fidata e di qualità, soprattutto esperienza abbondante. Considerato che avremmo cacciato alla cerca, e non da appostamento su un treestand previa apposizione dell’esca, le nostre chance di successo erano basse; ma la caccia al mio primo orso sarebbe stata esattamente come avevo sempre immaginato.

Avremmo battuto un buon numero di terreni impegnativi e incontrato selvaggina ricca e varia. E per me, scappato dalla città, anche questo era fondamentale. Mentre la settimana scorreva, fummo abbastanza fortunati da vedere la pecora delle Montagne rocciose, il cervo mulo, l’alce e la capra delle nevi, che quasi non si accorsero della nostra presenza mentre, a cavallo, battevamo la zona alla ricerca dell’orso. Ma l’orso si stava dimostrando elusivo.

La conformazione del luogo ci costringeva spesso a lasciare i cavalli all’accampamento e partire a piedi per coprire miglia e miglia di terreno ripido ogni giorno per scrutare il fianco opposto del canyon – una delle cacce più dure di cui io abbia fatto esperienza a giro per il mondo, nessuna esclusa. Non ricordo da quanto non fossi così spaventato. Non erano gli orsi a terrorizzarmi, ma la percezione del pericolo fisico in cui mi ero infilato. Le infide pareti rocciose a strapiombo e i tronchi scivolosi usati come ponte sui fiumi di ghiaccio acceleravano quotidianamente il mio battito. Era un rischio calcolato per le guide, per loro attraversare una strada in città è più pericoloso. Ma a me un ambiente con cui non avevo familiarità suggeriva quanto fosse priva di rischi la mia vita quotidiana lontano dalla natura selvaggia.

Il rischio e, in definitiva, la paura mi fanno rimanere agganciato all’istante e riavviare la mente. È questa sensazione una delle ragioni principali per cui amo cacciare in posti incontaminati. E la caccia all’orso in Idaho ha più che soddisfatto questo lobo del mio cervello. È la mia versione mentale di control + alt + canc.

Adrenalina

Dopo quattro giorni eravamo andati vicini a sparare per due volte, ma in entrambi i casi non ce l’avevamo fatta a ridurre la distanza a sufficienza. Mentre Adam stava guidando me e Jeff Johnstone, della rivista dell’Nra, su per un affioramento roccioso particolarmente difficile, feci l’errore di guardare giù. Congelai. Rimasi paralizzato e fui improvvisamente consapevole della mia condizione mortale. Feci leva su tutte le mie forze fisiche e mentali per andare avanti e con l’aiuto decisivo di Adam, che mi agguantò, riuscii a tirarmi sulla sporgenza successiva. Con l’adrenalina in circolo, mi tirai su un altro passo, e poi un altro ancora, ora a quattro zampe finché non raggiunsi un punto in cui potei sedermi. Avevo il respiro spezzato e le mie mani tremavano. La sensazione di pericolo era intossicante.

Adam e Jeff, stagionato scrittore di outdoor e cacciatore eccellente, erano più agili di me in quell’ambiente e si spinsero lungo la cresta successiva per scrutare al di là del versante del canyon; io mi fermai e presi il mio binocolo per fare lo stesso. Non so se fosse l’adrenalina, perché di sicuro le mie mani, malferme come erano, non mi stavano aiutando, ma in pochi secondi vidi un orso.

Color cannella brillante, l’animale si muoveva come se stesse pulsando; e quel suo tipico movimento rotatorio mi ricordava un caterpillar. In controluce, si stagliava in un alone soffuso.

Ed era, inconfondibilmente, un orso.

Chiamai silenziosamente Adam perché desse un’occhiata, ma non ce ne fu il tempo: l’animale era scomparso in una piega, e non potevo più vederlo. Avere ottiche di qualità non era mai stato così importante. Muovendoci centimetro dopo centimetro, e ripetendo più volte il processo, perlustrammo il pendio. Ci volle un po’. Poi finalmente lo scorgemmo di nuovo.

Ingegneria applicata

Ora veniva la parte difficile: avvicinarci.

L’orso era a circa 1.400 metri: bisognava ridurre considerevolmente la distanza. In più: si muoveva a una velocità notevole. Jeff e Adam partirono, fermandosi per controllare la sua posizione ogni manciata di metri ma cercando comunque di tenere un buon ritmo. Io rimasi in posizione per non perderlo di vista. Anche perché quel giorno ero il cameraman e sulla schiena avevo uno zaino con quasi 25 chili di attrezzatura fotografica. Di sicuro non aiutava il mio equilibro, né mi faceva avanzare con più sicurezza.

Dopo quella che sembrò un’ora e innumerevoli tentativi di stare al passo con l’orso, raggiunsero una strozzatura del canyon. Era quella l’occasione. Guardai Jeff trovare un appoggio adatto, prepararsi per il tiro, aggiustare la mira – deriva minima, 275 metri la distanza – grazie al calcolatore balistico del telemetro Geovid e attendere il momento giusto. Ossia che l’orso si fermasse per un’istante.

Si fermò. E il dito di Jeff non ebbe esitazione. La carabina tuonò nel canyon e, guardando nel binocolo, vidi l’impatto. L’orso cadde sull’ombra.

Ma la fatica non era ancora finita.

Anche se in Idaho non c’è una legge che renda illegale l’abbandono della carcassa degli orsi, volevamo portarla all’accampamento. Scendemmo piano piano alla base del canyon, dove scorreva, ampio e implacabile, l’Horse Creek. Per fortuna avevamo una guida come Adam. Con uno come lui, era impossibile che non ci fosse un piano.

Sapeva esattamente dove trovare un grosso albero caduto, da utilizzare come ponte naturale. Lo attraversò in equilibrio precario. Poi trascinò l’orso alla sponda, lo annodò a un capo di una corda ultraresistente e portò l’altra estremità sulla nostra sponda. Così avremmo potuto trainarlo.

Una volta che arrivò dalla nostra parte, Jeff poté davvero ammirare il suo orso. Color cannella brillante, secondo i calcoli di Adam l’animale aveva cinque anni. Ed era di una taglia dignitosa per la zona.

Filosofia

Quella notte, riparato insieme a me in un abbondante campo di foraggio, Adam mi raccontò come fosse finito a fare l’outfitter. «Ho comprato l’Horse Creek Outfitter sei anni fa. Lavoravo nel mondo delle imprese ed ero giunto al momento in cui ci si accorge che si deve fare qualcosa che ci appassiona. Così feci un viaggio con mia moglie e capitammo qui. Non ci fu gara, non c’è gara». Devo ammettere che trovo complicato immaginarmi Adam, avventuriero consumato, a destreggiarsi tra calcoli e numeri vestito di tutto punto. Ma, afferma, i sei anni trascorsi nella finanza gli hanno garantito un vantaggio: «Si riesce a vedere il vero colore delle persone quando si deve gestire il loro denaro. Seriamente», proseguì, «si impara a essere brave persone. E non importa quanto uno sia capace come cacciatore, esperto di cavalli, abile escursionista: se non si è buoni con la gente, non si può essere buoni come outfitter. Si ha in mano la sicurezza delle persone e bisogna gestire le loro emozioni e aspettative durante un viaggio che può essere pauroso, eccitante, inebriante, deludente».

Adam ha ragione. Raramente in una caccia, in specie in una in cui non ho avuto successo, avevo provato così tante emozioni – e più di tutte la paura. Mi ha permesso di mettere a fuoco quanto sicure siano le nostre vite e quanto raramente siamo davvero terrorizzati.

La paura è divertente: viene dalle viscere, risveglia e permette di resettare le preoccupazioni quotidiane. Tira fuori ogni cosa in tutta la sua crudezza. Tutto questo non vuol dire che siamo stati spericolati – descriverei il viaggio come di gran successo indipendentemente dal non esser riuscito a sparare al mio orso. È stato il mio quarto tentativo e, ne sono convinto, un giorno ce la farò.

Ma preferirei non cacciarlo da appostamento, con l’esca. La sfida, l’eccitazione e le abilità chieste per una caccia alla cerca valgono l’attesa.
(traduzione a cura di Samuele Tofani)