Con una lettera sulla rivista Science 133 scienziati difendono la caccia ai trofei e mettono in guardia dalle conseguenze di un possibile divieto.
La caccia ai trofei è un mezzo di conservazione imprescindibile, in molti Stati africani ha un impatto maggiore dei parchi nazionali. Fa rumore la lettera aperta che 133 scienziati, in testa Amy Dickman, Rosie Cooney, Paul J. Johnson, Maxi Pia Louis e Dilys Roe, hanno inviato alla rivista Science.
Una serie di studi ha dimostrato che la caccia ai trofei ha conseguenze positive sulle popolazioni di rinoceronte, markhor, argali, bighorn e molti ungulati africani. E non bisogna dimenticare che è fonte di reddito per aree rurali, marginalizzate e impoverite.
Vietare la caccia ai trofei minaccia la biodiversità. Se il problema è la cattiva gestione, la si può correggere con una riforma incisiva. Ma di sicuro non con una serie di proibizioni. Anche perché il divieto di caccia rischia di lasciar campo libero al bracconaggio; in pericolo soprattutto le specie problematiche per le comunità locali, leone in primis. L’alternativa rappresentata dal safari fotografico non è praticabile: molte aree di caccia sono troppo remote e poco attraenti per garantire un flusso turistico sufficiente.
I 133 scienziati hanno deciso di scrivere a Science perché la situazione internazionale si sta complicando. Australia, Olanda e Francia hanno stabilito una serie di limiti all’importazione dei trofei; nel Regno Unito, una volta risolta la questione Brexit che sta monopolizzando la discussione pubblica, torneranno a farsi sentire le analoghe forti pressioni. Paradigmatica è la situazione degli Stati Uniti. Raul M. Grijalva, deputato democratico dell’Arizona, ha presentato il Cecil Act, disegno di legge che intende proibire l’importazione di trofei di elefante e leone da Tanzania, Zambia e Zimbabwe.
Ma l’impatto positivo della caccia ai trofei è riconosciuto anche dall’Iucn, Unione per la conservazione della natura. E, si chiude la lettera, quando si assume una decisione così gravida di conseguenze non ci si può appellare solo ai sentimenti morali. È vero, molti – e anche alcuni dei firmatari – faticano a venire a patti con questa pratica. Ma le politiche di conservazione non basate sulla scienza rischiano di essere letali: mettono a repentaglio gli habitat e la biodiversità, impoveriscono le comunità locali.