Sono già dieci anni che ci mancano le favole vere di Adelio Ponce de Leon, l’indimenticabile Mitraglietta. E non c’è modo migliore per ricordarlo se non quello di ripercorrere attraverso la sua penna una delle sue mille avventure.
Impossibile raccontare in poche righe la favolosa vita di Adelio Ponce de Leon. Perché davvero la sua vita è stata una favola. E quasi un secolo è durato il suo viaggio che ha attraversato come l’inarrestabile vento del nord anni importanti della nostra storia.
Avvocato e giornalista, combattente e decorato al valore militare, carrista e paracadutista, corrispondente di guerra (1936 Africa orientale, 1940-1943 seconda guerra mondiale in Africa settentrionale, 1944-1945 guerra di Liberazione), dottore in scienze politiche, Adelio Ponce de Leon ha dedicato gran parte della sua vita alla caccia. Oltre a essere autore di una ventina di volumi di caccia, ornitologia ed etologia, e di innumerevoli articoli sulle riviste di settore italiane e straniere, ha rincorso ogni specie cacciabile per più di sessant’anni in ogni parte del mondo. Firma storica di Sentieri di Caccia, ho avuto il privilegio di condividere con lui molti anni di lavoro. Di Adelio, però, più di tutto ricordo la sua amicizia e il suo sostegno.
Una favola vera per ricordarlo
Quello che pubblichiamo in queste pagine è uno dei racconti contenuti in uno dei suoi ultimi libri, “Dall’allodola all’elefante”, un progetto editoriale su cui abbiamo lavorato insieme e che mi ha permesso di conoscerlo un po’ più dentro.
L’Adelio (con l’articolo davanti, come noi lombardi usiamo buffamente dire) era unico e fino alla fine ha vissuto di caccia, anche quando, oramai ultra novantenne, non poteva più calcare i sentieri insieme a cane e fucile.
Era vulcanico ed estremo in ogni cosa e solo oggi capisco davvero tante delle parole dette tra noi. Adelio aveva compreso prima di altri che la caccia stava repentinamente cambiando, che erano finiti i vecchi tempi che lui aveva vissuto divorandoli e nonostante quando lo conobbi la sua età era già avanti è stato più moderno e attuale di tanti allora giovani, me compresa. Non perché obtorto collo aveva appeso il fucile al chiodo, ma perché aveva già ben capito che la caccia stava mutando insieme al mondo. Giustamente diceva lui, perché i cambiamenti vanno ascoltati, accompagnati e guidati, non osteggiati. Pena è subirli impotenti.
Adelio Ponce de Leon: moderno e attuale
Ironico e sagace, affermava questo con forza, ma non tutti capirono. E forse anche io ascoltando parole, racconti e considerazioni non ho sempre ben afferrato fino in fondo quanto fosse un personaggio titanico. Però, anche se allora ero giovane, intuii l’importanza che ogni sua parola nascondeva e che ogni suo gesto celava. Era ed è per me un affetto e un uomo che mi ha insegnato molto, di caccia e di vita.
Tanti di voi avranno fatto una scorpacciata di caccia scritta leggendo i suoi libri. A chi mancano nella propria libreria mi permetto di suggerire di non negarsi il piacere di farsi accompagnare in incredibili avventure che, credetemi, sono tutte vere.
Ed è qui che sta la magia, nella verità di ciò che Adelio ci ha fatto immaginare e sognare. È questo che fa di lui un pezzo importante della storia della caccia italiana (e non solo) e un pezzo importante di quella che davvero si può chiamare letteratura. (© Viviana Bertocchi)
Tremila chilometri per un beccaccino
Quando in Albania regnava Vittorio Emanuele III, nel 1938, ero stato a Scutari, inoltrandomi nelle paludi vicino alla città e mi era rimasto un ricordo incancellabile dei milioni di palmipedi e trampolieri che volteggiavano sopra le acque del lago e sopra le erbe, il falasco e le torbiere. Allora cacciavo con la Browning a cinque colpi, ero oberato di cartucce e sognavo carnieri da favola.
Ma non vi era nessuna organizzazione venatoria, gli uccelli durante il giorno rimanevano fermi sull’acqua e alla sera e all’alba giocavano a branchi imponenti e branchetti vari, volando però sempre a cento metri dalle rive. Milioni di puntini neri sulle acque e nel cielo, nessun barcaiolo a remi, nemmeno il più piccolo minimotore furibondo a spingere a tiro gli uccelli.
Ho alimentato il desiderio per cinquant’anni e mi sono lasciato trascinare dall’entusiasmo di Beppe e di Nicola per i beccaccini unendomi a loro per l’agognata spedizione al lago di Scutari, questa volta però sulle sponde montenegrine, ponendo base a Cettigne, l’antica capitale della Crna Gora, sostituita da Titograd.
Ritorno a Scutari
Alle due di sabato pomeriggio Beppe posa le chiappe sul sedile della macchina con a fianco Nicola, mentre io mi accoccolo dietro in mezzo a valige, sacchi, sacconi, sacchetti, cibarie, mangimi per Arma (setter), Black (pointer) e Snupi (bracco tedesco) alloggiati dietro nel baule. Popi mi aveva consigliato di portarmi un pappagallo per gli sfoghi renali, perché quando Beppe si piazza al volante si alza solo all’arrivo, fosse anche dopo duemila chilometri. Sollecitato e supplicato questa volta ci è venuto incontro fermandosi vicino a Spalato per fare sporcare i cani, disinteressandosi dei nostri problemi fisici violentemente reclamati.
Via sempre di corsa nella lotta contro migliaia di curve protette da monti brulli di dorettiana apparizione. Una sgranchita grazie al traghetto delle bocche di Cattaro e poi dopo Budua su per la montagna fatta di grossi macigni screpolati dalle erosioni plurimillenarie fino a Cettigne, coperta da quaranta centimetri di neve e di ghiaccio, con evoluzioni della macchina da cross-country. Finalmente alle otto del mattino Beppe libera le natiche dal sedile.
Il tempo di farci assegnare le camere al Grand Hotel, costruito nel 1984 nello stesso posto ove prima sorgeva l’albergo Park, poi distrutto dal terremoto del 1979, nel centro storico di Cettigne e subito Beppe ci trascina verso il lago e la palude, frenetico di far cantare i fucili e sgranchire i cani.
L’immensa palude allagata
La discesa verso il lago si presenta in un paesaggio da leggenda. Non c’è da stupirsi se Bernard Shaw guardando il lago di Scutari rimase rapito ed estasiato, definendo Cettigne una delle sette meraviglie del mondo.
L’immensa palude ai margini del lago appare allagata, essendo le acque salite di almeno cinque metri; spuntano, isolati o a gruppi, filari di alberi, cespugli vari e una grande quantità di salici fra canneti e radure erbose nei rialzi.
Sotto un promontorio popolato da antichissime casette di pescatori e cacciatori, barche lunghe in attesa di essere azionate dai fuoribordo. Sui vasti spicchi di lago, protetti da monti strapiombanti, le acque brulicano di anatidi e di uccelli neri.
Tra le casette e le stradicciole di sassi, corvi quasi domestici si uniscono a pascolare nei cortili assieme alle galline e ai maiali, rifugiandosi su vetusti alberi di fico e di noce.
A pochi metri dalla riva cormorani si alzano soli o in gruppo in volo, facendo evoluzioni fin sopra le nostre teste. Sulle acque del lago notiamo morette e moriglioni in mezzo a numerose folaghe, oltre a un voletto di marzaiole in evoluzioni veloci che si confondono contro lo scuro delle montagne.
Siamo qui per i beccaccini
È domenica, l’ultimo giorno di caccia per i locali. Dalle postazioni sui salici emergenti al largo partono fucilate e scariche. Ma noi siamo qui per i beccaccini dice Beppe e adocchiati alcuni spiazzi di erbe affioranti al largo, induce Tullio e Franco a farsi trasbordare con due cani. Sono scettico perché mi sembrano terre allagate con fondo senza pastura. Infatti i due tornano senza avere visto nemmeno un beccaccino.
Ma Goyco, barbuto responsabile della caccia locale, nostro accompagnatore e interprete, ci promette beccaccini a bizzeffe nei prati, nei coltivi e nelle erbe dall’altra parte della palude. Si va. Una piana a distesa d’occhio con praterie, erbe basse, umide e leggermente sommerse ci riempie di certezza per una battuta a becchilunghi d’eccezione.
Si parte a rastrello, cento metri l’uno dall’altro, i cani scorrazzanti davanti. Fucile a bracciarm, dito sul grilletto, ma cammina, cammina e cammina, si arriva a un corso d’acqua che ferma l’avanzata. Avremo percorso cinque chilometri e… nemmeno un selvatico. Non è un deserto di sabbia, ma un deserto di verde senza anima viva.
Un barchetto pericolante ci traghetta su un’altra spianata con erbe più verdi e più altre. Cammina, cammina e ora portiamo i fucili come manici di scopa. I cani corrono senza convinzione e dire che siamo solamente delusi è farci un complimento.
Sull’orlo di un boschetto Snupi butta via tre beccaccini. Nicola rapido ne abbatte uno di seconda canna. Ci siamo scappottati!
Beccaccini fantasma
È il tramonto e il ritorno è penoso. Ci sorvolano pochi gruppetti di cesene. Finalmente qualcosa che vola. Non un merlo, un tordo, una cincia, un’allodola, un corvo. Come mai?
Anche Dregan Stenovic, l’organizzatore di viaggi venatori di Belgrado, non osa più parlare. Ci ha fatto venire qui con una telefonata che parlava di beccaccini a strafottere.
Lo sguardo di Beppe è bieco, quello di Nicola torvo, dalla bocca di Tullio escono più imprecazioni che parole, Franco è muto. Saranno stati lo strano tempo dell’altro ieri e la nevicata della notte che hanno cacciato in luoghi migliori tutti i migratori.
A cena visi duri e abbocchiamo ancora una volta alle parole di Goyco che ci promette per l’indomani nuovi terreni pieni di beccaccini perché ha sguinzagliato cacciatori locali in varie località. Piano d’azione. Beppe insiste per i beccaccini e con lui sono Nicola e Franco. Io induco Tullio ad andare nel lago a becchipiatti.
«Beccaccini non ne vedrete» oso dire. «Se li incontrate saranno in gruppo di centinaia e si leveranno tutti assieme fuori tiro».
Ore e ore appollaiati sul salice
Il mattino seguente con Tullio vengo trasbordato a mezzo chilometro dalla riva su un salice. Chiamarlo botte non si può perché botte non è, posta nemmeno perché non è infrascato, postazione ancora meno perché non è artificiale o sopraelevato. Il primo a trasbordare sul salice è Tullio. «Sembri una cicogna sul nido» lo saluto e anch’io vado al mio nido.
Quattro o cinque ore appollaiati su un ramo di salice, con i piedi tra i rami sconnessi, senza potersi appoggiare, né sedere a causa degli spuntoni tagliati e intersecati per coprire ai selvatici la vista del cacciatore è fatica non da poco.
Uccelli che volino di loro iniziativa ce ne sono pochi. Arrivano quelli fatti volare dai barchetti a motore che girano per il lago. Si imparano le voci, i pigolii, i versi delle folaghe, dei tuffetti, dei cormorani, delle gallinelle, degli svassi, dei gabbiani, dei fenicotteri che si muovono tranquilli d’attorno e vicini perché sanno che non spari. E nuotano, si tuffano, giocano, si rincorrono e stridono…
Due moriglioni lontani mi inducono a sfuocare il fucile ereditato da mio fratello che negli ultimi trent’anni ha sparato solo a beccacce. Arrivano veloci due morette, una davanti, l’altra dietro; sono centrate con un bellissimo doppietto. Il fucile va bene.
Negli stampi intravedo un moriglione e mentre sto per imbracciare ne arriva un altro da dietro. Lo lascio passare e lo impiombo come una rossa nell’ojeo di Spagna. Non riesco a sparare a un germano che mi passa come un jet a dieci metri sulla testa perché mi sorprende. Imparo che i cormorani, oltre che sull’acqua, si posano anche sugli alberi; in gruppi alcuni riposano sui salici poco lontani da me.
Rientro. Otto, nove tra morette e moriglioni, una marzaiola e una spatola. La pancia bianca delle morette fa da contrasto con il collo rosso del moriglione.
Nulla di fatto
Arrivano i tre che sono stati a beccaccini: dal viso si capisce che è andata come il giorno prima. «Avevi ragione tu» mi dice Nicola. «Ne abbiamo visti almeno cinquecento tutti assieme che sono volati via a cento metri».
Arrabbiarsi è inutile. Induco gli amici a metterla sul riso tanto che Beppe al ritorno si ferma alla rotonda di Opicina e si va dal celebre ristorante ove ci abbuffiamo di piatti istriani da favola. Quando, a Milano, mi lasciano sotto il portone di casa do uno sguardo al cruscotto della macchina di Beppe. «Però dico duemilanovecentotrenta chilometri per un beccaccino è mica male». Mi guarda, borbotta e nemmeno mi saluta.
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