L’impatto economico della pandemia sul mondo della caccia: inchiesta

L’impatto economico della pandemia sul mondo della caccia inchiesta
© Matteo Brogi

L’impatto economico della pandemia sul mondo della caccia è tutt’altro che irrilevante. L’emergenza sanitaria ha cambiato il profilo della società italiana. Il Paese prova a ripartire, ma anche il mondo venatorio e tutto ciò che gli gira intorno rischiano di risentire di una situazione inedita. Se il denaro non circola, armerie, industrie e gestori della fauna faranno fatica. I cacciatori italiani sono pronti a spendere. A patto di avere risposte.

È l’incertezza il concetto chiave per capire il reale impatto economico della pandemia sul mondo della caccia. Non la paura del contagio, non il bisogno di risparmiare qualche cento: è l’incertezza sulla prossima stagione, se come quando partirà, a far ciondolare i cacciatori sulla strada che porta all’Atc. È presto ancora per tracciare un quadro definitivo, ma le previsioni convergono: il confronto col 2019 è impietoso, ci si attende una contrazione media del 10-20%. La riduce, la ridurrà, chi vive una cornice più definita: da sola non basta, ma è fondamentale per mollare il freno. Perché l’assunto è chiaro: se non sanno che ne sarà della prossima stagione, i cacciatori non si iscrivono all’Atc e non accendono il motore economico che alimenta il settore. Tutto quello che ne nasce, in testa pochi ripopolamenti, viene poi.

L’impatto economico della pandemia sul mondo della caccia – Parte prima: sapere è un vantaggio

Un solo problema in Toscana

Chi ha chiare le basi minime della logica lo sa, che l’incertezza sia un freno a investire nulla ci dice sull’esito della certezza. Che comunque, anche se non sufficiente, è la spinta giusta per ripartire. «Le decisioni della Toscana, dal riavvio della selezione al nuovo calendario venatorio, hanno favorito le iscrizioni all’Atc» racconta Roberto Vivarelli, presidente dell’Atc3 Siena nord e coordinatore degli ambiti regionali. La sincronia tra le delibere di giunta e l’esplosione di contatti lascia pochi dubbi sui legami.

Lo slittamento delle elezioni regionali potrebbe favorire l’approvazione della nuova legge sulla caccia già in questa consiliatura: se l’obiettivo è potenziare gli Atc e, in assenza delle Province, «renderli vero filtro tra Firenze e la periferia» è bene non perdere altro tempo. Perché se la riduzione dei cacciatori sarà compresa nella forbice tra il 2% e il 6%, niente di nuovo rispetto al lento ma costante declino, l’indennizzo dei danni da ungulati rischia di esplodere.

Un mese abbondante di confinamento totale e di sospensione del prelievo anche in controllo rischia di aver piagato l’agricoltura, «anche se l’ordinanza di metà aprile che assorbe le guardie venatorie volontarie nei piani di controllo faunistico dovrebbe averci evitato problemi peggiori». Di fatto la Toscana teme di dover affrontare un solo problema su cui però poco può fare: la gestione della braccata dipenderà molto dall’andamento epidemico e dalle decisioni sul distanziamento fisico (fisico, eh: non sociale). Ma qui decide Roma.

Qualcuno ha tutto sotto controllo

Territorio forse ancora più composito, l’Emilia Romagna vive di suggestioni molteplici. Anche qua c’è il calendario, Bonaccini e i suoi si sono mossi presto, e in alcune zone l’impatto economico della pandemia sul mondo della caccia è limitato.

Nel Parmense, per dire, sembra tutto abbastanza sotto controllo. L’Atc Parma 4, nella zona che tocca Reggio, si attende un calo del 7-8% rispetto al 2019. In sé non pochissimo, ma un buon risultato se si fa la tara sul contesto. «Quest’anno avrei voluto aumentare la quota d’iscrizione» confessa Alberto Pazzoni, presidente dell’Atc «ma è chiaro che la situazione economica generale non lo consente».

Neppure nei momenti più crudi del confinamento l’Atc si è fermata: il lavorio silente ma costante ha fatto sì che a fine maggio la Regione consentisse l’utilizzo dei coadiutori nei piani di controllo del cinghiale. «La polizia provinciale non ha persone, mezzi e strumenti numericamente sufficienti per gestire la specie, per la quale nel nostro Atc non esistono zone vocate». Pazzoni non si scompone per le incertezze sulla braccata, visto che nell’Atc operano solo sette squadre: «anche se sono comunque trecento persone, non mi attendo un impatto violento. Anche perché neppure nella caccia collettiva vedo problemi sull’eventuale rispetto delle distanze: ci siamo già attrezzati con indicazioni precise sul recupero delle carcasse, che è l’unico momento in cui i cacciatori potrebbero venire a contatto».

Sovrabbondanze eventuali

C’è poi chi storicamente ha problemi di sovrabbondanza e non farà fatica a sostituire le eventuali defezioni. Uno dei più piccoli della regione, l’Atc Parma 2, avrà come sempre da pescare tra le circa 350 domande per i 240-250 posti. E in ogni caso difficoltà sui ripopolamenti non ci saranno perché qui ripopolamenti non si fanno: «non lanciamo selvaggina» spiega il presidente Giuseppe Pastori «riusciamo a far riprodurre naturalmente sia lepri sia fagiani». Le fatiche si concentrano sulla predazione del lupo e sulla gestione di cinghiale, capriolo, volpe, corvidi. «L’emergenza sanitaria ha solo ritardato alcuni processi, come l’avvio del monitoraggio sanitario di gazze e cornacchie». Obiettivamente però la situazione è sotto controllo: «a giro per l’Italia in tanti hanno detto che avrebbero accettato iscrizioni in ritardo. Ma da noi non ci sono problemi: data la particolarità del nostro territorio, chi vuole andare a caccia si è già mosso».

muso di cinghiale in primo piano, inchiesta sull'impatto economico della pandemia sul mondo della caccia
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L’impatto economico della pandemia sul mondo della caccia – Parte seconda: la questione foranei

E spostarsi tra regioni?

Ma nel Paese dei campanili basta spostarsi di qualche chilometro per trovare una situazione capovolta. Nell’Atc Parma 6, zona sud-occidentale della provincia al confine con Piacenza, si fanno i conti con un rallentamento deciso. Ancora una volta è l’incertezza a pesare. Perché sì, l’Emilia Romagna si è mossa in tempo e sì, la stagione è già definita. Ma sullo spostamento tra regioni, soprattutto con la paura di una seconda ondata in autunno, poco si sa. E chi vive di foranei ne risente.

«Da noi cacciano tanti cacciatori toscani e lombardi che ovviamente stanno prendendo tempo» fanno sapere dall’Atc. Che teme altri due pericoli: la situazione economica generale, che potrà spingere i cacciatori a rinunciare al secondo Atc, e la primavera sconvolgente che nel migliore dei casi ha costretto i lavoratori a mangiarsi ferie e permessi. Difficile che qualcuno possa concedersi intere giornate a caccia fuori regione. Le stime sono impietose, si teme che le iscrizioni crollino anche del 25%. Vorrebbe dire scendere intorno ai 1.000 associati, rispetto ai 1.300 dell’anno scorso e ai circa 3.000 che il territorio potrebbe contenere.

È chiaro che così si rischia di alimentare una dialettica negativa: meno iscritti vuol dire meno lanci di selvaggina, fondamentali in un Atc di montagna senza grandi aree di ripopolamento e cattura, e dunque minor fascino. È, come sempre e senza bisogno di vergognarsi, una questione di soldi. L’Atc ha già ricalcolato al ribasso l’indennizzo dei danni da ungulati, ma ora ha bisogno di una mossa incisiva: «da anni chiediamo che della tassa regionale ci venga restituito di più. Potrebbe essere il momento giusto per aiutare non tanto gli Atc, che con i tagli si aiuteranno da soli, ma la gestione faunistica».

Il nodo costante tra legge e mondo

I dubbi sui movimenti fuori regione complicano i piani di chi vive di foranei. Gli Atc Novara 1 e 2 fanno conto di perderne circa il 5-10%, soprattutto lombardi. «È chiaro» spiega il presidente Filippo Caccia «che gli Atc dovranno rimodulare le spese e soprattutto ridurre l’immissione di selvaggina».

La caccia fuori regione riguarda tanti Atc di confine, come Alessandria 3 e 4 che dal punto in cui Piemonte e Lombardia si abbracciano si prende Tortona, passa sotto il capoluogo e si stende fino a carezzare la Liguria. «La Regione sta lavorando per aumentare la quota dei cacciatori foranei dal 10% al 20%». Roberto Prando, assessore comunale di Arquata Scrivia e numero uno dei due Atc, condivide con l’assessore regionale Marco Protopapa la militanza leghista. «In ognuno dei due Ambiti abbiamo a disposizione 3.200 posti, ma con i nostri arriviamo a circa 1.600-1.700. Sarebbe fondamentale far salire la quota di esterni da 320 a 640».

È chiaro che un ritocco numerico non sarà sufficiente, «bisogna anche che chi viene da fuori per la selezione non sia vincolato al prelievo di una sola specie». Anche perché tra minori prelievi e inverni sempre più caldi di ungulati ce ne sono a sufficienza. Se si resta fermi rischia di rimetterci la piccola selvaggina, cui sono destinati i pochi interventi di ripopolamento da finanziare con le iscrizioni.

È uno degli aspetti che unisce il Paese lungo tutta la dorsale: chi vive di gente che si muove rischia di far fatica per un bel po’. L’Atc Potenza 1 consegna fuori regione tra i 3.000 e i 4.000 permessi all’anno: «quest’anno credo che i non residenti saranno molto meno» ammette Giovanni Paternoster. «Il contributo dei cacciatori fuori regione è fondamentale sia per l’indennizzo dei danni all’agricoltura sia per gli interventi di ripristino ambientale: temo che la stagione non sarà delle più felici».

un fagiano chiude le ali, inchiesta sull'impatto economico della pandemia sul mondo della caccia
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L’impatto economico della pandemia sul mondo della caccia – Parte terza: certezze diverse

Serenità

Nel nord-est, più o meno profondo, la situazione è invece sotto controllo. Nel Ravennate le iscrizioni sono addirittura avanti rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso: «è evidente che alla fine un calo ci sarà» riconosce Libero Asioli, coordinatore dei tre Atc «il lento declino dei cacciatori non è una scoperta di oggi. Ma siamo fiduciosi che sarà contenuto: alla fine prevarrà la voglia di iscriversi, anche perché si sa che i soldi a disposizione dell’Atc sono destinati alla gestione della caccia e della fauna».

E anche in Veneto, anche se il calendario venatorio è ancora in divenire, si respira una certa serenità. Evidentemente ben motivata: gli Atc si erano mossi con ampio anticipo. «Le ricognizioni delle lepri erano già state effettuate ai primi di dicembre, quindi il piano era già stato preparato prima dell’emergenza sanitaria» racconta Giuliano Marchesin, presidente dell’Atc Treviso 5 in quota Enalcaccia. E la presenza di selvaggina autorizza a sperare.

C’è chi sorride anche dall’altra parte, sotto la montagna. «Nel Comprensorio alpino Biella 1 ci attendiamo un’emorragia di circa l’8%, ossia una ventina di cacciatori: non è una cosa tragica» dice Guido Dellarovere che in un unico ente gestisce anche l’Atc. «In pianura addirittura stiamo registrando numeri maggiori rispetto al passato». Il motivo? «Un po’ la fortuna, è una zona interessante per i migratoristi, un po’ la crescita esponenziale di cinghiale e capriolo, un po’ perché negli anni l’Atc ha lavorato bene. Se c’è selvaggina è più facile essere appetibili». Il Comprensorio è riuscito a infilarsi nell’unico varco possibile per completare i censimenti sulla tipica alpina: è lecito essere ottimisti.

Burocrazia da scardinare

Ma scendendo un centinaio di chilometri più a sud la situazione già si complica. L’Atc Asti nord registrerà un calo di circa il 20% rispetto alle iscrizioni del 2019. «Speriamo di non avere problemi sui ripopolamenti» commenta Antonello Murgia, sindaco di Piovà Massaia, presidente dell’Unione Comuni Riviera del Monferrato e vertice dei due Atc provinciali. «Potrebbero risentirne la lepre e soprattutto il fagiano», il cui calo fa da contraltare al ritorno della starna.

Più che misure occasionali per tamponare una stagione anomala, Murgia chiede però un intervento strutturale. Ok, lo chiedono tutti: però qui si ha a che fare con un meccanismo specifico, non con la solita richiesta di snellire la burocrazia. Perché di questo si tratta, ma qui declinata in concreto: «non si possono mettere troppi paletti e troppi fogli davanti a chi caccia il cinghiale, visto che fornisce un servizio pubblico». Le differenze territoriali su cui modulare le misure non riguardano solo la diffusione del contagio: «l’Italia non è tutta uguale. Bisogna che il governo e le regioni consentano ai sindaci di scardinare la burocrazia secondo le esigenze del loro territorio».

una lepre corre in un prato, inchiesta sull'impatto economico della pandemia sul mondo della caccia
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L’impatto economico della pandemia sul mondo della caccia – Parte quarta: dubbio, mistero, braccata

Contrazioni

E poi c’è la questione. Dove le certezze non bastano, i cacciatori diminuiscono. E la certezza, o l’incertezza, non si dice in un modo solo. Esempio: la Liguria ha approvato il calendario venatorio per prima in Italia. Ma non è bastato, o non sta bastando. L’Atc Genova 1 sta «registrando una riduzione dei cacciatori iscritti». Gianni Olivieri è abbastanza convinto che tanti «non abbiano ancora chiaro che cosa sarà la prossima stagione venatoria. E il comitato di gestione dovrà valutare attentamente a quali interventi di ripopolamento e recupero ambientale dedicarsi.

Quello che Schopenhauer sosteneva sugli individui può ben applicarsi alle situazioni: non ne esistono due perfettamente identiche. Ecco perché l’Atc Modena 1 Basso Modenese rappresenta una sintesi completa di ciò che non sono gli altri: risentirà del calo degli iscritti ben più dei fratelli emiliani, si attende una contrazione del 20% sui 1.400 originali, ma riuscirà a contenerne l’impatto economico. Segnato dal terremoto del 2012 e dell’alluvione del 2014, negli anni Stefano Gasperi ha sempre puntato ad avere un avanzo di gestione da mettere a riserva. «Abbiamo dovuto rimborsare meno danni del previsto, ho attivato una serie di collaborazioni. Anzi, ho fatto promozione dappertutto».

Quindi l’attività gestionale non risentirà del crollo degli iscritti, auspicabilmente temporaneo. Anche perché l’Atc Modena 1 è ambizioso: «vorremmo non acquistare più selvaggina, ma riuscire a farcela in casa. Sta funzionando il progetto sul fagiano: vengono fuori animali territoriali, decisamente diversi dai pronta caccia. Ci piacerebbe introdurre, lo dico brutalmente, una sorta di caccia di selezione anche alla selvaggina stanziale, per consolidare il patrimonio faunistico. E poi ho scritto a Federunacoma, l’organizzazione che riunisce i costruttori di macchine agricole, per chiederle un confronto sullo sfalcio dei campi: abbiamo trovato un sistema per far spostare il selvatico prima che sia straziato dai congegni».

Dubbi costanti sulla braccata

Ma non tutti hanno lo stesso ottimismo. Dalla parte opposta della provincia si respira un’aria ben diversa. E non è difficile scoprire perché: qui la caccia collettiva al cinghiale è quasi prioritaria. «E ancora non si sa se in autunno saranno consentiti assembramenti e aggregazione» dice Giampaolo Cantergiani, segretario dell’Atc Modena 3. L’altra preoccupazione riguarda la caccia di selezione al capriolo: «senza i censimenti al primo verde, i piani di prelievo saranno programmati sugli abbattimenti dell’anno scorso. A occhio i caprioli prelevabili saranno la metà». L’incertezza, appunto. E l’incertezza genera incertezza: «decideremo più avanti, una volta che sapremo quanti cacciatori si sono effettivamente iscritti, se lanciare la selvaggina in base al bilancio originario o ridurre le quote. D’altra parte quasi il 50% delle spese si concentra su questo capitolo».

La caccia collettiva è il cruccio anche di Leonardo Fontanella, presidente dell’Atc Terni 2: «c’è una discussione accesa sul tema, abbiamo chiesto alla Regione un protocollo di sicurezza per chi va a caccia». Se si mettono insieme la braccata, il ripopolamento di fagiani non completato causa confinamento e i due mesi e mezzo in cui il cinghiale ha potuto muoversi indisturbato, si capisce come mai la situazione sia al limite.

capriolo accanto ad albero da frutto
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L’impatto economico della pandemia sul mondo della caccia – Parte quinta: un protocollo unico

Chi sostiene che i corpi intermedi siano l’eredità di un passato in soffitta deve ricalibrarsi sulla situazione italiana. Basta contare le iniziative del Comitato nazionale caccia e natura per capire perché. Quando la politica, per colpa o emergenza, era impegnata in altre faccende, Cncn e le associazioni venatorie che lo accompagnano nella cabina di regia hanno preso in mano il mondo della caccia e tentato di sciogliere l’incertezza. Una volta fuori dal buio di primavera, frangente in cui i cacciatori hanno donato più di un milione e ottocentomila euro (un milione e ottocentomila euro, sì), Cncn si è dedicato a tre iniziative che su piani diversi consentano un riavvio sereno della stagione venatoria.

Numero uno: un documento informativo «con cui si sollecita a praticare la caccia in modo intelligente» spiega il presidente Nicola Perrotti. La caccia è un’attività sicura, perché consente naturalmente il distanziamento e perché i dispositivi di protezione individuale non la complicano. Numero due: ricordare alla politica che un’approvazione rapida dei calendari venatori è fondamentale. «Per un cacciatore non c’è niente di più preoccupante dell’incertezza sul calendario» prosegue Perrotti. «La cabina di regia ha dunque scritto a tutti gli assessorati regionali sollecitandoli a intervenire al più presto». Numero tre, ancora in divenire ma potenzialmente fondamentale: «Cncn e associazioni venatorie stanno valutando se comporre protocolli sanitari unitari, distinti per pratica venatoria ma omogenei su tecniche analoghe».

Si evitano misure diverse da territorio a territorio, suggerimenti diversi da associazione a associazione, fughe in avanti del legislatore. «E mostriamo una volta di più il senso di responsabilità del mondo venatorio» conclude Perrotti. Bisognerà attendere ancora un po’, verosimilmente la seconda parte dell’estate, ma se andrà in porto il protocollo potrà essere davvero il pianoro su cui fondare la nuova stagione.

altana nel bosco, inchiesta sull'impatto economico della pandemia sul mondo della caccia
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L’impatto economico della pandemia sul mondo della caccia – Parte sesta: l’economia in senso stretto

Le armerie respirano

Fin qui la gestione faunistica, i ripopolamenti, il territorio. Ma sarebbe poco in testa chi calcolasse solo questo nell’economia del settore. Perché c’è chiaramente chi di caccia vive. Armerie e industrie devono fare i conti con gli sfregi della serrata. La vendita al dettaglio sembra però essersi riavviata senza cicatrici particolari. È chiaro, a marzo e aprile la cassa è rimasta più o meno a zero, ma la ripartenza promette bene. Anche perché la chiusura è arrivata in un momento tiepidissimo, a caccia chiusa, più o meno quando anche la selezione viene sospesa.

«Nei cacciatori che vengono a trovarci percepiamo enorme voglia di ripartire» racconta Giorgio Beolchini dell’omonima armeria pavese. «Stiamo passando le giornate al poligono a tarare le armi. Certo, sarà il lungo periodo a dirci se i cacciatori abbiano meno soldi da spendere». Il negozio è grande, «riusciamo a servire anche quattro-cinque persone in contemporanea».

Sono le medesime sensazioni di Francesco Lenzerini, titolare dell’armeria Lenzerini a Poggibonsi (SI) e membro della giunta Assoarmieri che ha redatto il vademecum per la riapertura dei negozi. Grande entusiasmo soprattutto i primi giorni, danni contenuti dal periodo in cui è caduta la chiusura: «un’armeria che lavora soprattutto col tiro è difficile che si riprenda alla svelta dopo tre mesi cancellati». Ma in Italia è una situazione abbastanza rara: «l’armeria tradizionale, che serve soprattutto cacciatori, non ha perso molto. Perderà in caso di scossoni all’economia» ma questo è un assunto universale. Anche Stefano Gherardeschi di Florensport, San Piero a Ponti (FI), è convinto che «la ripresa sembra battere la strada giusta».

Industrie, munizioni, esportazioni

La ripartenza delle industrie rischia di essere più lenta anche se Mauro Silvis, direttore generale di Anpam, non se la sente di considerarle più danneggiate delle armerie: «la filiera è la stessa e, nel settore civile, identiche sono le problematiche». C’è un dato però su cui riflettere, l’unico ufficiale al momento: nei primi quattro mesi del 2020, dati del Banco di Prova, la produzione di armi si è ridotta del 30% rispetto al 2019.

Migliore, ma si va a naso, dovrebbe essere il comparto munizioni. «È lo stesso che accade nell’industria automobilistica: è più facile rimandare l’acquisto del bene durevole, arma o automobile, non di quello di consumo». E poi c’è da sottolineare un passaggio delicato: «parte della produzione è interconnessa con l’estero. Dobbiamo dunque attendere che anche gli altri Paesi europei si allineino alla situazione italiana». E dall’estero dipende anche una bella quota di mercato: l’industria italiana, non solo quella delle armi, vive di esportazioni.

Occhio alla filiera

«Se il commercio internazionale si contrae, si contrae tutto». Potrebbe sembrare una banalità se non uscisse dalla bocca di Fabio Musso, docente dell’Università di Urbino e curatore dello studio sul valore economico della caccia (2018). «Solo negli Stati Uniti il mercato delle armi ha fatto registrare convulsioni e picchi inaspettati». Per il resto c’è da aspettare e vedere che succederà nei prossimi mesi. Musso non concorda sul possibile vantaggio delle munizioni rispetto alle armi. «Un’arma è un bene a uso ripetuto, una sorta di bene d’investimento: il mancato acquisto nel periodo della chiusura è di fatto un acquisto rinviato. Pertanto, al netto dell’incognita esportazioni, non mi attendo un grande impatto negativo. Le munizioni sono invece un bene di consumo. Quelle non sparate a marzo e ad aprile, e ovviamente penso soprattutto al tiro, non si spareranno più».

Musso è però ottimista sia sull’avvio della stagione («la caccia, che si svolge all’aria aperta senza particolari aggregazioni, dovrebbe risentir meno delle eventuali misure restrittive») sia sulle capacità di spesa dei cacciatori: «discorso diverso per il tiro che comporta costi maggiori. Ma sull’acquisto di attrezzatura, abbigliamento e accessori per la caccia non credo che ci sarà un calo». Difficile anche pensare a un mercato più o meno sofferente a seconda del tipo di caccia, «semmai caleranno i viaggi venatori all’estero». E dalla riscoperta dell’identità nazionale potrà trarre vantaggio anche la filiera della carne di selvaggina: «anche se cacciata, una carne garantita italiana potrebbe essere apprezzata di più». Su questo molto dipenderà dal futuro della ristorazione. Perché, e non dovrebbe neppure servire ribadirlo, è tutto intrecciato fino all’ultimo filo.

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