Peste suina africana: uno spettro sull’Europa

Si è registrato un caso in Belgio: la peste suina africana ha raggiunto anche l’Europa occidentale. Perché la malattia non si diffonda, è necessario che i cacciatori seguano una serie di procedure rigorose

Cinghiale
© Martin Prochazkacz

Le autorità locali devono essere avvertite ogniqualvolta si trovi una carcassa. Attrezzatura, abiti, veicoli e trofei devono essere puliti e disinfettati direttamente sul campo, e comunque sempre prima di lasciare l’area. I cinghiali abbattuti devono essere eviscerati solo nelle zone preposte. Deve essere sempre – sempre – evitato il foraggiamento artificiale. E nelle aree ancora non infette deve essere ridotta la densità dei cinghiali intensificando il prelievo venatorio – anche se qualcuno, come Jean-Marie Giffroy dell’Università belga di Namur, considera questa mossa difficilmente realizzabile e in ogni caso non risolutiva. Eccolo qui, al netto delle critiche, il pentalogo diffuso dalla Commissione europea dopo l’ennesimo ritrovamento di un cinghiale malato di peste suina africana. E stavolta la notizia è particolarmente inquietante per motivi geografici: la PSA, o ASF, African swine fever, è arrivata in Belgio. Per la prima volta in Europa occidentale. E adesso rischia di diffondersi ancora. Pur senza sbilanciarsi nel dettaglio, le autorità sono abbastanza convinte che il virus della famiglia Asfarviridae sia stato veicolato da un vettore umano. Non si spiega altrimenti il salto dall’Europa dell’est alla regione di Étalle, in Vallonia, nella provincia belga del Lussemburgo. Finora la peste suina aveva toccato Polonia, Lettonia, Estonia, Lituania, Repubblica Ceca, Ungheria, Romania e, più a est, Moldavia, Ucraina, Bielorussia e Russia. In Sardegna, fonte AlpVet, è ormai endemico il genotipo I del virus. Che, nelle diverse forme, è particolarmente difficile da debellare. Perché sopravvive anche in ambiente esterno, e può essere veicolato da una parte all’altra del continente. Perché resiste anche alle basse temperature (tre mesi nelle carni refrigerate, più di quattro anni nelle carni congelate, fonte AlpVet). E perché, non stimolando la produzione di anticorpi, non può essere combattuto con un vaccino.

Peste suina
© Kawkin

Ora, l’uomo non si ammala. Ma può rappresentare un vettore micidiale per cinghiali e maiali, che poi possono trasmettersi il virus tra di sé. E, se si sta ai dati economici diffusi dalla Commissione europea, si capisce come, al netto delle comunque prioritarie questioni di biosicurezza, ciò basti a mettere in ginocchio fette consistenti dell’economia continentale. Gli allevamenti di suini rappresentano l’8,5% della produzione agroalimentare europea. La percentuale sale a più del 50% se la si confronta solo con gli altri comparti (bovino, ovicaprino, pollame) di produzione della carne. E addirittura al 62% se si considerano le esportazioni di carne dell’Unione europea. Si comprende perché nell’ultimo quinquennio il governo europeo abbia stanziato 48.200.000 euro per contrastare l’ASF. Senza però riuscire a contenerla. Il ministero della Salute italiano fa sapere che, negli allevamenti domestici di suini dell’Europa orientale, i focolai di PSA sono 1.145. Il Paese più colpito è la Romania, con 888 casi; seguono Polonia (107), Lituania (49) e Lettonia (10). Ancora più complessa la situazione dei cinghiali: se ai Paesi citati si aggiungono Repubblica Ceca e Ungheria, si arriva intorno a quota 4.000, la metà dei quali solo in Polonia. Ecco perché i cacciatori, a un tempo prime sentinelle e possibile quinta colonna del virus, assumono un ruolo cruciale nel combattere la diffusione della peste suina.

© Kateryna Kon

Dai cacciatori per i cacciatori

La peste suina si diffonde 1) col contatto tra animali sani e animali malati, vivi o morti; 2) col contatto tra animali sani e vestiti, veicoli o altro equipaggiamento infetto; 3) con la somministrazione di cibo infetto, di derivazione animale. Ecco perché l’Unione europea ha diffuso una sorta di prontuario a cui si sono accodate FACE e CIC, due organizzazioni che hanno una certa presa sui cacciatori. L’European federation for hunting and conservation e il Consiglio internazionale della caccia si rivolgono innanzitutto a chi viaggia attraversando Paesi diversi, soprattutto se si reca in prossimità dei focolai: in queste circostanze devono essere prese tutte le misure possibili per evitare la diffusione della PSA. Ma ci vuole un supporto simmetrico anche da parte del potere. La gestione faunistico-venatoria del cinghiale, chiedono a gran voce FACE e CIC, deve essere concordata con tutti i portatori di interesse, cacciatori inclusi, da coinvolgere sia nella stesura sia nell’esecuzione dei piani. E, perché possano essere efficaci al meglio, i cacciatori devono ricevere dalle istituzioni locali, nazionali e comunitarie un aiuto concreto. Ossia: equipaggiamento adeguato – FACE si spinge a richiedere la fornitura di soppressori di suono, ove permessi – e supporto logistico per tutto ciò che riguarda la biosicurezza, a partire dal controllo delle carcasse. Diverse associazioni venatorie europee hanno fatto da altoparlante all’appello di FACE e CIC, aggiungendo alle direttive comuni (avvisare le autorità in caso di ritrovamento di carcasse, rispettare le misure minime di sicurezza) alcune disposizioni più specifiche. Che possono essere applicate ovunque, per circoscrivere il male.

La belga Hubertus Vereniging Vlaanderen, suo malgrado coinvolta direttamente, ricorda ai cacciatori di 1) lavare con acqua e sapone, pulire e disinfettare accuratamente mani, stivali e materiali entrati in contatto con i cinghiali; 2) non visitare gli allevamenti di maiali nelle 72 ore successive al rientro da un viaggio in un Paese contaminato. In Olanda, in cui il sangue dei cinghiali abbattuti viene esaminato a campione (più di 900 gli esami, finora tutti negativi), la Jagersvereniging ricorda 1) il divieto di somministrazione dei rifiuti alimentari ai suini; 2) l’importanza di non consumare carne di maiale o cinghiale proveniente da Paesi in cui sono stati riscontrati focolai di ASF. I tedeschi, si sa, nell’organizzazione non arrivano mai secondi.

La Deutscher Jagdverband non smentisce il (pre)giudizio e chiede alle autorità di “migliorare urgentemente la biosicurezza, in particolare nei parcheggi, nelle stazioni ferroviarie o ai valichi di frontiera lungo le rotte di transito”. Perché ciò sia possibile, servono innanzitutto cestini per l’immondizia chiudibili a chiave, ai quali i cinghiali non possano avere libero accesso. I cacciatori tedeschi hanno inoltre collaborato col Tierfund-Kataster per sviluppare un sistema che consenta in notificare la presenza di carcasse di cinghiale in modo rapido ed efficiente. Anche il ministero della Salute italiano si è appellato alle associazioni venatorie, perché sensibilizzino i loro iscritti e rendano possibile l’esecuzione delle procedure corrette. Innanzitutto, il principio di precauzione spunta ancora una volta, la notifica di ogni sospetto al servizio veterinario competente. Poi l’attenzione “al trasporto di carni e prodotti a base di carne di suino e cinghiale non autorizzate”, ossia “fuori dai circuiti della filiera alimentare ufficiale”. Quindi il divieto di portare in Italia prodotti a base di carne di maiale o di cinghiale dalle zone infette, “salvo che i prodotti non siano etichettati con bollo sanitario ovale”, e dai Paesi extraeuropei. E infine una parola chiara sui rifiuti, negli ultimi tempi argomento da prima pagina politica: è vietato “smaltire i rifiuti alimentari, di qualunque tipologia, in contenitori [non] idonei, somministrarli […] ai suini domestici” e “lasciare rifiuti alimentari in aree accessibili ai cinghiali”. Senza dimenticare il fattore umano nella sua materialità più micidiale: il rischio maggiore si genera da una diffusione meccanica del virus. Ecco perché vanno tenuti presenti i comandamenti iniziali.

Cinghiale
© Erik Mandre

L’INTERVISTA

Il virus della peste suina africana può essere efficacemente combattuto soltanto qualora si riesca a impedirne la diffusione. La dottoressa Martina Besozzi, veterinaria dello studio associato AlpVet, spiega come fare. E quali sono i sintomi del contagio delle differenti forme della malattia

Dottoressa Besozzi, quali sono i sintomi con cui si manifesta la peste suina africana?

Il principale sintomo è in realtà la morte, perché la peste suina africana è una malattia molto contagiosa che ha un esito infausto nella maggior parte dei casi. È pur vero che della stessa malattia esistono diverse forme, che possono colpire suini sia domestici sia selvatici. La forma iperacuta si sviluppa molto velocemente e porta a morte nell’arco di due o tre giorni. Il tasso di mortalità è molto vicino al 100% e causa anoressia, inappetenza, febbre molto alta, congestione delle mucose, cianosi cutanea. Sostanzialmente gli animali colpiti, specie se si parla di cinghiali, si ritrovano morti. La forma iperacuta si sviluppa però solo nelle aree in cui il virus insorge per la prima volta. Sono più frequenti altre forme, acuta o subacuta e cronica. I sintomi sono gli stessi, ma cambia l’entità, che diventa più modesta via via che la peste suina africana si cronicizza. Nella forma acuta o sub-acuta conduce a morte in un periodo compreso tra i quattro e i quindici giorni, anche se a volte ne possono servire anche trenta. Si possono aggiungere altri sintomi: problemi a livello congiuntivale, secrezione nasale aumentata, talvolta vomito. E un barcollamento nella postura. Nella forma acuta, la cianosi cutanea parte da alcune aree corporee: padiglioni auricolari, addome, grugno, cosce. La forma cronica è registrata nelle aree in cui il virus è endemico e presente da tempo, nelle quali cioè non si è agli esordi della malattia – e soprattutto in presenza di ceppi a virulenza più bassa. I sintomi sono gli stessi, più prolungati nel tempo e di entità ancora più modesta. La mortalità, che rimane comunque sempre alta, è più bassa che nelle forme iperacuta e acuta o sub-acuta. Il dimagramento può essere progressivo e più netto che negli altri due casi, nei quali la morte impedisce di verificarlo con maggior evidenza. Ai fini della trasmissione della malattia, la forma cronica ha una certa rilevanza, perché mantiene la patologia in un territorio e fa in modo che si creino dei portatori. Chiaramente tutta questa analisi è basata soprattutto sui suini in allevamento, che sono facilmente controllabili; se si fa riferimento al cinghiale, è necessario analizzare le carcasse.

Quali sono i rischi della diffusione della malattia?

La mortalità è così alta che porta a un evidente danno economico per l’allevatore. In caso di positività riscontrate, a prescindere che si tratti di maiali o cinghiali, si bloccano tutti gli spostamenti sia degli animali vivi, sia delle loro parti, ossia dei prodotti, che non possono essere commercializzati. La peste suina africana non è una zoonosi: l’uomo non può essere infettato.

Generalmente si parla di tre modalità di trasmissione della peste suina: contatto tra animale sano e animale malato, contatto con un vettore del virus, alimentazione con carne contaminata. Ci sono altri modi in cui il virus può trasmettersi?

Sono questi, se si tiene presente che i vettori possono essere di due tipi: vettori attivi, come le zecche molli, e meccanici – mezzi, automezzi, le nostre scarpe e i vestiti, gli attrezzi che utilizziamo per l’eviscerazione. Ecco perché per prevenire il diffondersi della malattia è essenziale la disinfezione.

La caccia può avere un ruolo non solo nel contenimento ma anche, involontariamente, nella diffusione del virus? C’è chi mette in guardia dai pericoli della braccata, che spinge i cinghiali a spostarsi.

 Di sicuro la caccia ha un ruolo. Bisogna vedere, a seconda delle circostanze, se positivo o negativo. Perché sia utile a contenere la diffusione della peste suina, ci vuole una caccia che abbia un senso e che sia gestita bene. Detto altrimenti: per quanto mi riguarda, la braccata non è un metodo di gestione del cinghiale, perché poco selettiva e perché spinge i cinghiali a spostarsi in altri territori. Inoltre spesso vengono abbattute le femmine trainanti e ciò porta i cinghiali a disperdersi.

Oltre alle procedure di sicurezza descritte da Unione europea, ministero della Salute e FACE, c’è qualche altra cautela da prendere?

Gli elenchi diffusi mi sono sembrati molto completi. Bisogna prestare molta attenzione al turismo venatorio, che per il cinghiale assume dimensioni importanti su scala europea, alla disinfezione e alla prevenzione – sia dalle morsicature delle zecche sia dal trasporto di prodotti di derivazione suina, soprattutto dai Paesi in cui la peste suina africana è endemica.

Le istituzioni suggeriscono di ridurre la densità dei cinghiali nelle zone non contaminate, ma alcuni studiosi considerano l’intensificazione del prelievo venatorio difficilmente realizzabile e comunque non risolutiva. Qual è la sua posizione?

Condivido quanto comparso nelle ultime settimane su “Ecology and Society” nell’articolo a firma Giacomelli, Gibbert e Viganò. La caccia ha un senso, così come ha senso ridurre la densità della specie cinghiale. Ma deve essere gestita in un certo modo: quindi non caccia collettiva, ma prelievi selettivi affiancati da interventi di contenimento della polizia provinciale. Effettivamente è utile ridurre la popolazione del cinghiale, non soltanto per l’aspetto peste suina africana. Ma una gestione della caccia è fondamentale: la pressione venatoria elevata può portare a svariati problemi, sia sul cinghiale sia su altre specie.

Peste suina africana
La diffusione della peste suina africana nell’Unione europea (fonte: Commissione europea – chiaramente nell’immagine non
sono considerati i Paesi che non fanno parte dell’Ue)