Editoriale
Il virus del pregiudizio
L’epidemia influenzale che ha caratterizzato questo inizio d’anno – per poi dimostrarsi qualcosa di assai più grave, con il suo carico di morti e di paure – è destinata a lasciare tracce durature nella nostra società. Certamente dal punto di vista sanitario, visto che la paura del contagio ha cambiato le nostri abitudini. Probabilmente da un punto di vista etico, quasi che il sacrificio delle classi di popolazione più anziane fosse in qualche modo giustificabile se non, addirittura, auspicabile.
C’è anche chi è arrivato a un calcolo piuttosto macabro, quantificando i risparmi per l’Italia nel caso che gli ultrasettantenni scomparissero. Tanti piccoli passi in direzione della dittatura del “benessere della maggioranza” che non si cura di chi più è debole e nel bisogno. Ma le conseguenze sono forti anche da un punto di vista dell’informazione. Il modo di costruire la notizia ha dimostrato – se mai ce ne fosse stato bisogno – che la pressione mediatica è in grado di costruire l’emergenza così come di “risolverla”. L’insipienza della classe politica ha poi fatto il resto.
Desidero tornare al punto della pressione mediatica. Ebbene, noi cacciatori siamo ben abituati a una rappresentazione giornalistica penalizzante. La caccia, le armi che utilizziamo per la nostra attività, sono costantemente sotto accusa. Il male assoluto, qualcosa su cui non è possibile stabilire un confronto con chi ci avversa.
Nei nostri confronti è stata portata avanti un’opera di demonizzazione ben congegnata che nelle città non ha faticato a trovare consensi. Basta frequentare un bar vestiti da caccia, magari la domenica, per effettuare una propria statistica. Nelle campagne, ci si ritroverà a discutere di forme di caccia, passioni, carnieri, in città si verrà osservati come marziani, quando non apostrofati a male parole. Ho sempre vissuto in città e questa sensazione la conosco bene. Al punto che, volendo giocare con le parole, mi piace dire che non ho amici-cacciatori ma cacciatori-amici. Insomma, nessun amico storico con cui condividere la passione, ma molti amici che sono diventati tali proprio perché cacciatori. E quasi nessuno di essi vive tra Bologna e Firenze, le città che hanno accompagnato la mia crescita e che pure sono un bacino importante – almeno nelle loro province – dei cacciatori italiani.
La pressione mediatica però è cieca e, come dimostrano altri casi, non si accorge di alcune tematiche che andrebbero sottolineate con maggior convinzione. Partiamo dalla questione dei consumi – tutti, a partire da quelli alimentari per terminare con quello del suolo – e sulla necessità di ridurli.
Oggi, sul banco degli imputati, tra le abitudini più scorrette della nostra epoca c’è il consumo di carne, considerato tra i maggiori responsabili dell’inquinamento (in primis per la produzione di anidride carbonica, a sua volta responsabile dell’effetto serra) e della sottrazione di terreni, sia per creare pascoli, sia per coltivare cereali che devono alimentare il bestiame. E allora ci vengono proposte scelte e stili di vita alternativi. Si pensi alla scelta vegetariana e a quella vegana.
La scienza dimostra che l’industria che le supporta non è meno responsabile dei danni che subisce l’ambiente di quella che alimenta noi carnivori. È evidentemente una questione di numeri, in un caso come nell’altro: siamo oltre sette miliardi e siamo destinati a crescere. A meno che non si voglia ipotizzare lo sterminio della popolazione mondiale, le soluzioni vanno cercate altrove. Non è neppure una soluzione convertirsi a un’alimentazione diversa: la scienza, sempre lei, dimostra che produrre un chilogrammo di gamberetti costa – in termini di inquinamento – quattro volte la produzione di un chilo di carne. Senza pensare ai 20 chili di catture accessorie, assolutamente sprecate, correlate alla cattura del solito quantitativo di gamberetti selvaggi. C’è già chi propone di produrre in laboratorio anche loro, i gamberetti. Di questo nessuno parla per la cecità ideologica che contraddistingue i nostri tempi. Ricchi di slogan ma poveri dal punto di vista ideale.
La nostra comunità non è priva di contraddizioni mediatiche. Tutti gli anni vengono pubblicati gli interessanti studi dell’Università di Urbino che segue il trend degli incidenti legati alla caccia. Anche quest’anno il numero è in calo: al netto di eventi causati da malori, cadute, atti intenzionali o episodi di bracconaggio, nella stagione venatoria 2019-2020 si sono verificati 78 incidenti di caccia, con 18 vittime. La conclusione dello studio è netta: la caccia non è tra le attività più pericolose.
Vero, ma il punto non è questo. Vanno infatti considerati i 4 feriti che niente avevano a che fare con una battuta di caccia e, soprattutto, va completamente ribaltato il messaggio. Non dobbiamo più proporci come quelli meno peggio, perché nella caccia ci sono elementi ben più premianti che non il fatto che sia un’attività meno insicura, per dire, dell’alpinismo.
Matteo Brogi