Editoriale
La guerra dei sostantivi
Mi piacerebbe pensare che quella dei cacciatori fosse una comunità. Variegata, certo, inevitabilmente litigiosa, ma che avesse la consapevolezza del proprio ruolo e del compito che le è assegnato. Non solo quello di difendere un diritto che può essere da alcuni considerato un privilegio, ma di sostenere una visione in cui l’uomo occupa una posizione centrale, riveste una funzione ordinatrice nei confronti del mondo naturale e armonizza le esigenze di tutte le specie animali, in primis le proprie, sentendo la responsabilità del ruolo che gli è stato affidato.
La realtà è invece un’altra e parla di un mondo diviso.
Pervaso di invidie e giochi di potere che non riescono a ipotizzare una prospettiva superiore al qui e ora. L’un contro l’altro armati, noi cacciatori non riusciamo a essere d’accordo su nulla. Salvo poi lamentarci dell’assenza di unità dell’associazionismo venatorio che, di fatto, altro non è se non la perpetuazione di queste divisioni. Se volessimo fare un’indagine sociologica basandoci su dati storici, la discordia che regna al nostro interno è la perfetta rappresentazione, su scala ridotta, delle divisioni che lacerano la comunità nazionale, figlie dell’Italia dei campanili, di uno Stato di recente unificazione che non ha mai saputo dimostrarsi veramente uno.
Così si litiga e il dissidio va a rompere anche l’armonia delle associazioni specialistiche i cui membri, almeno in teoria, dovrebbero condividere una visione. Basta un post social, un commento, e la discussione trascende l’esercizio dialettico.
In questi ultimi tempi, stimolato da un amico e lettore, mi sono interrogato se questo non sia un difetto congenito all’essere cacciatori, se cioè sia possibile pretendere da noi stessi una minima nobiltà d’animo e se questa possa trovare spazio nel contesto di un’attività cruenta come la caccia, che in tanti – almeno agli esordi della nostra carriera venatoria, parlo per esperienza personale – abbiamo praticato perché attratti anche dall’aspetto predatorio che si porta dentro. Poi – in tanti – ci siamo evoluti e siamo riusciti a inquadrarla in maniera più razionale. C’è chi ha abbandonato forme di caccia in favore di altre più sostenibili, chi ha mutato le proprie abitudini così da riservare un maggior rispetto per la specie insidiata, chi ha scelto di cacciare con calibri più etici, chi semplicemente – ma si fa per dire – si informa e si tiene costantemente aggiornato così da praticare il prelievo in maniera più consapevole. Sinceramente di cacciatori di questo stampo ne conosco tantissimi e sono certo che sono il futuro della caccia e la garanzia della sua permanenza.
Al bando l’ipocrisia, dunque. La caccia è cruenta e non può che esserlo, ma possiamo declinarla in maniera tale da renderla compatibile con i nostri tempi. In maniera da superare l’aspetto istintuale che le è proprio e inquadrarla in un contesto più ampio. Sostenibilità, etica, consapevolezza sono parole che risuonano frequentemente su queste pagine. E non è un caso.
In un mondo perfetto vivremmo senza conflitti e senza sofferenze. Ma il mondo perfetto non è quello dove ci è dato di vivere e dobbiamo pertanto essere consapevoli della responsabilità che abbiamo nei confronti della nostra funzione e del futuro delle generazioni che ci seguiranno. Hic et nunc, qui e ora, è una filosofia di vita che non ci può corrispondere. Come uomini abbiamo il dovere di farci carico della nostra funzione ordinatrice. C’è chi lo fa cercando nobilmente di smussare le ingiustizie sociali e le sofferenze di chi gli è vicino. C’è chi si sente portato ad affrontare le grandi sfide su scala globale, e magari si impegna per dare un futuro a chi vive su terre lontane. E c’è anche chi dà il proprio contributo a gestire l’ambiente con una carabina in spalla. Soddisfacendo un proprio desiderio personale e le proprie aspirazioni, è chiaro, ma evolvendosi da quell’istinto predatorio che sta alla base di tutto l’agire umano e facendosi carico di una funzione sociale che pure è insita nella caccia. E dimostrando comunque vicinanza a una comunità più ampia, come dimostrano le tante attività di solidarietà che a livello locale associazioni e singoli cacciatori mettono in campo a favore di chi è in difficoltà.
Insomma, passando dall’astratto al concreto, è compatibile la nobiltà con il nostro essere cacciatori? Non ho la presunzione di spacciare opinioni personali per verità, ma credo di sì e vedo tante persone, intorno a me, che praticano la caccia in modo onorevole, rispettoso delle esigenze e delle sensibilità di tutti. Vedo in loro una nobiltà che non ha nulla a che vedere con un privilegio ereditario, ma che è pura nobiltà d’animo che si perpetua ogni giorno, con gesti piccoli e grandi.
Matteo Brogi