Sentieri di Caccia n. 10 ottobre 2019

L’opinione

Braccata vs caccia di selezione al cinghiale

Emilia Romagna. Estate 2019. Più di ogni altra notizia, nella cronaca estiva nazionale sulla caccia e la gestione degli ungulati selvatici spiccano l’inaspettata levata di scudi a difesa della braccata e il deciso attacco contro la caccia di selezione al cinghiale. Tutto ha inizio quando Federcaccia Emilia Romagna invia alla Regione un’istanza di annullamento della caccia di selezione al cinghiale e una nota stampa a sostegno di questa iniziativa. Seguono, dopo pochi giorni, altrettante iniziative politiche e comunicati stampa, prima da parte della Lega Emilia Romagna, poi del PD regionale e, infine, del presidente nazionale Anlc. L’ultimo in ordine di tempo, almeno fino al momento in cui scrivo, è quello di Federcaccia Emilia Romagna che annuncia l’istituzione di una settoriale specifica per la caccia al cinghiale, orientata, appunto, verso la caccia in braccata.

Tratto comune a queste note la solida e inoppugnabile convinzione di come la caccia in braccata sia l’unica forma di prelievo efficace sul cinghiale e, al contrario, di quanto la caccia di selezione sia improduttiva nel contenimento numerico della specie, nonché tecnica di caccia inopportuna e marginale nel contesto ambientale e sociale nazionale.

Facciamoci una domanda: appurata la pretesa inefficacia della caccia di selezione, perché preoccuparsi tanto? Semplice: perché la caccia di selezione è una forma di prelievo estremamente redditizia sul cinghiale.

Tanto efficace quanto a basso sforzo di caccia. Dati a sostegno di questa mia affermazione arrivano da alcune realtà nazionali che hanno colto appieno le opportunità dell’esercizio della caccia di selezione al cinghiale fornite dal decreto legge 248 del 2 dicembre 2005 (art. 11 quaterdecies comma 5). Numeri inequivocabili, probabilmente oggetto di trattazione e discussione nei prossimi convegni e seminari sulla gestione della specie.

Anticipo sinteticamente solo un dato, tra quelli più interessanti, emerso in alcuni ambiti territoriali di caccia abruzzesi e istituti faunistico-venatori privati emiliano-romagnoli e marchigiani. In termini di sforzo assoluto di prelievo (media giornaliera dei animali abbattuti in rapporto ai cacciatori attivi su giornata di caccia) la selezione è doppiamente efficace rispetto alla braccata. Addirittura, tale indice arriva a superare di 6 volte quello della braccata se ai prelievi in caccia di selezione si sommano anche quelli realizzati in attività di controllo (art. 19 L. 157/92) con tecniche selettive.

Ovvero, tramite aspetto e cerca con carabina e ottica di puntamento, ma senza limiti di orario giornaliero e di utilizzo di mezzi di caccia (fonti luminose, visori notturni). Vero è che tali risultati sono connessi al periodo di esercizio più esteso della selezione (mediamente 6 mesi) rispetto ai 3 mesi previsti dalla legge nazionale per le cacce collettive. Tuttavia, anche se si valutasse una modifica del quadro normativo nazionale tale da estendere il periodo consentito per la caccia collettiva al cinghiale dagli attuali 3 mesi a 4, la braccata sarebbe comunque contraddistinta da uno sforzo di caccia maggiore. Aggiungo che il termine temporale di 4 mesi per le cacce collettive è da considerarsi il massimo possibile. Ciò per le note ragioni di criticità ecologiche proprie della braccata, nonché per l’oggettiva impossibilità da parte delle squadre di sostenere un impegno superiore a 3 giorni di caccia settimanali per oltre 4 mesi. È ovvio che i dati che attestano la maggiore efficienza della selezione possono essere raggiunti soltanto dove questa forma di caccia non viene osteggiata con limitazioni imposte da regolamenti e disciplinari. Cosa, questa, che avviene ancora nella maggioranza delle realtà territoriali nazionali.

I documenti tecnici sulla gestione del cinghiale prodotti fino a oggi in Europa forniscono chiare indicazioni su come dovrebbe essere impostata e programmata l’attività venatoria nell’ottica di una efficiente riduzione delle criticità economiche ed ecologiche causate dalla specie. Studi scientifici e linee guida tecniche ci dicono che la strategia più efficace è la continua sinergia tra la caccia di selezione e le cacce collettive. La prima da esercitarsi sostanzialmente tutto l’anno, con il vantaggio di intervenire con prelievi a basso livello di disturbo sugli ecosistemi e proprio nei periodi di maggior impatto del cinghiale sulle attività agricole. Le cacce collettive invece, e la braccata in particolare, vanno a completare il lavoro della caccia di selezione, concentrando e massimizzando gli abbattimenti in un lasso temporale circoscritto (mesi autunnali e invernali).

Al di là delle considerazioni tecniche e oggettive fin qui esposte, non si può non biasimare l’inopportunità di contrapporre la braccata alla caccia di selezione. Tema oggetto di queste note. È evidente che ciò risponde ancora a delle logiche di convenienza politica che non guardano all’interesse collettivo, ma che mirano ad assecondare, estemporaneamente, una parte del mondo venatorio. Attualmente quella che, su scala nazionale, raccoglie ancora il maggior numero di cacciatori.

Molte cose stanno cambiando. Più in fretta di quanto si possa pensare.

Il numero dei cacciatori italiani, infatti, vede inesorabilmente ridurre ogni anno la sua consistenza. Allo stesso tempo l’età media di questi aumenta, con una prevalenza sempre maggiore di over sessantacinquenni Tutto questo non può che imporre una riflessione sul destino delle forme aggregative e sociali della caccia. Tra queste la braccata che, come è noto, richiede elevate capacità operative e un importante impegno fisico perlopiù sostenibile da cacciatori non anziani e in buone condizioni fisiche. Si pensi alla conduzione delle mute dei cani, all’addestramento e allenamento e alla loro gestione annuale. Oppure all’impegno che comportano il trasporto e la macellazione di numerosi cinghiali abbattuti. E ancora, in generale, al fatto che la braccata pesa sui suoi appassionati per 3 mesi l’anno, 3 giorni alla settimana, da mattina a sera. Tutte attività che richiedono grandi energie fisiche e mentali e molto tempo a disposizione.

Rispetto a questo quadro, quindi, sarebbe più opportuno, nell’interesse generale dell’attività venatoria e di una migliore gestione di una specie “problematica” come il cinghiale, non contrapporre forme di caccia diverse che invece hanno una loro specifica e contestuale efficienza. Piuttosto sarebbe opportuno e saggio cominciare a ragionare in termini inclusivi e non divisivi, con la consapevolezza che la caccia al cinghiale di domani, in tutte le sue forme (collettive e individuali), sarà presto diversa da quella che conosciamo oggi. Sicuramente praticata da un numero minore di cacciatori, più tecnica e professionale e, molto probabilmente, orientata in prevalenza verso la selezione.

Giovanni Giuliani