Controllo dei predatori e miglioramenti ambientali: un binomio di fondamentale importanza per il successo della piccola selvaggina stanziale.
La piccola selvaggina stanziale, segnatamente lepre, fagiano, starna, pernice rossa e coturnice, viene data letteralmente per spacciata. Nel senso che le popolazioni naturali di queste specie, a causa delle trasformazioni ambientali intervenute, non avrebbero ormai più sufficienti possibilità di vita e riproduzione. Niente di più errato!
Sebbene le trasformazioni subite negli ultimi settant’anni dagli habitat di queste specie siano state davvero rilevanti, la tecnica ha messo a disposizione una serie di efficaci accorgimenti, di facile ed economica attuazione. Certo, tali strumenti non sono in grado di riportare le lancette del tempo agli anni Cinquanta del XX secolo, ma hanno tuttavia la capacità di attenuare i fattori maggiormente negativi.
Ma per quanto i miglioramenti ambientali a favore della piccola selvaggina possano essere efficaci, da soli non sono in grado di conseguire risultati eclatanti. Essi devono giocoforza essere affiancati da un altrettanto efficace contenimento dei predatori: volpe e corvidi. Strepitosi sono i risultati ottenuti, in numerose esperienze sperimentali e pratiche, tramite la razionale applicazione di questo binomio. Intendiamoci: le cose vanno fatte come si deve.
Controllo dei predatori e miglioramenti ambientali
Per quanto riguarda gli interventi ambientali, occorre mettere da parte la vecchia pratica delle cosiddette “colture a perdere”: coltivare qua e là qualche appezzamento, ad esempio di sorgo o mais, non è certamente una soluzione adeguata. Né ci si può preoccupare semplicemente dell’alimentazione della piccola selvaggina durante la stagione venatoria. Serve ben altro. Bisogna pianificare una strategia in grado di soddisfare soprattutto le esigenze alimentari di questi piccoli animali nel periodo tardo-invernale e nella prima parte della primavera, ovvero nel periodo che precede la stagione riproduttiva.
Non solo, ma è necessario favorire anche la stessa riproduzione, incrementando i siti di nidificazione e di allevamento della prole. E, soprattutto, è di fondamentale importanza migliorare le condizioni di alimentazione dei piccoli, in modo tale da ridurre il tasso di mortalità infantile.
La scarsa sopravvivenza dei giovani è, infatti, il vero tallone d’Achille della gestione faunistica e venatoria di queste specie. La quantità, minore o maggiore, di giovani in grado di sopravvivere fino all’inizio della caccia fa la differenza: la consistenza dei carnieri è, infatti, strettamente legata al numero di giovani presenti alla fine dell’estate e all’inizio dell’autunno nei territori di caccia.
Quando agire
Se l’obiettivo principale del miglioramento ambientale è l’incremento della riproduzione naturale, anche il contenimento dei predatori deve avere identico fine. Per questa ragione, cacciare volpi, cornacchie e gazze durante la stagione venatoria può certamente, e legittimamente, risultare gratificante per gli appassionati di questo tipo di cacce, ma è un intervento inevitabilmente destinato ad avere uno scarso risultato ai fini dell’effettiva tutela della riproduzione primaverile.
La riduzione della pressione predatoria, per avere una positiva incidenza sulla riproduzione della piccola selvaggina stanziale, deve essere condotta nel periodo tardo-invernale e all’inizio della primavera. In altre parole, gli interventi di contenimento devono concentrarsi nei mesi di gennaio, febbraio e marzo, nel periodo che precede non solo la riproduzione di lepri, fagiani, starne, ma anche quella di volpi, cornacchie e gazze.
La tempestività in questo campo è un fattore di importanza decisiva. Questi sono i mesi durante i quali l’abbattimento di volpi è in grado di sfruttare il comportamento territoriale di questa specie e risultare di conseguenza massimamente efficace ai fini della tutela della riproduzione della piccola selvaggina. L’assoluta intolleranza manifestata da ciascuna volpe, in questo periodo, nei confronti della presenza di qualsiasi suo conspecifico all’interno del proprio territorio è un fattore decisivo. Il territorialismo delle volpi, infatti, fa sì che una volpe abbattuta difficilmente possa essere sostituita da un’altra.
In altre parole, mentre gli effetti degli abbattimenti autunnali sono facilmente annullati dal sopraggiungere di giovani volpi alla ricerca di un proprio territorio, quelli realizzati nel tardo inverno e agli inizi della primavera, dal momento che in questo periodo i giovani sono ormai stabilmente accasati, hanno effetti più duraturi e quindi più efficaci in relazione alla salvaguardia dell’incipiente riproduzione della piccola selvaggina.
Salvaguardiamo la piccola selvaggina stanziale
Per cornacchie e gazze il discorso è simile. Le vere protagoniste della predazione, tanto nel caso della cornacchia quanto in quello della gazza, sono le coppie che devono sfamare i rispettivi piccoli nel nido. Anche le coppie dei corvidi sono territoriali. Le trappole Larsen, con il loro zimbello, sfruttano il territorialismo delle coppie, ovvero la loro naturale aggressività nei confronti di qualsiasi intruso. Ma anche in questo caso la tempestività dell’azione è un fattore decisivo: il mese più importante per un fruttuoso impiego di questo tipo di trappole è marzo. Viceversa, gli effetti derivanti dal loro azionamento nei mesi successivi, in piena riproduzione, sono inevitabilmente limitati e comunque tardivi.
Non solo, ma l’obiettivo della trappole Larsen devono essere esclusivamente le coppie. Di conseguenza, una volta catturata una coppia la trappola deve essere spostata nelle vicinanze di un altro nido. Lasciare la trappola Larsen fissa, dopo la cattura di una coppia, significa destinarla solo alla cattura di qualche giovane, divenuto libero di accedere al territorio della coppia ormai indifeso. Ma i giovani non svolgono nessun ruolo predatorio e di conseguenza la loro cattura non ha alcun effetto pratico ai fini della tutela di nidi, pulcini, leprotti.
Controllo dei predatori e miglioramenti ambientali: servono entrambi
Tutto questo per dire che anche nel campo del contenimento della predazione, così come in quello del miglioramento ambientale, occorre fare un salto di qualità. Significa uscire dai luoghi comuni e fare i conti con i veri problemi. L’impiego dei diserbanti, la distruzione delle siepi campestri e delle prode erbose, la diffusione della monocultura, la rapidità delle operazioni agricole sono ormai fattori negativi che risalgono agli anni Sessanta e Settanta del XX secolo, con i quali bene o male la piccola selvaggina si era abituata a convivere, tanto è vero che fino all’inizio degli anni 2000, laddove beninteso c’era un buon livello gestionale, le Zone di ripopolamento e cattura conservavano ancora degli ottimi patrimoni faunistici.
E’ quindi del tutto inutile ripetere come una vieta giaculatoria la solita litania sulle trasformazioni ambientali e climatiche senza riuscire a mettere a fuoco altri importanti fattori responsabili del disastro. Che cosa è avvenuto negli ultimi vent’anni che ha compromesso di brutto la produttività della piccola selvaggina stanziale e in particolare quella del fagiano che è la specie che ha sofferto e soffre in misura maggiore?
Senza dubbio uno dei fattori più negativi è rappresentato dalla dismissione della cerealicoltura nelle aree meno produttive, come ad esempio quelle collinari. La progressiva espansione di terreni lasciati a riposo, incolti o addirittura abbandonati, afflitti dallo sviluppo di una fitta vegetazione erbacea e arbustiva, ha sommamente penalizzato specie granivore come il fagiano, la starna, la pernice rossa e la coturnice, da sempre strettamente legate agli ambienti cerealicoli.
Occorre una strategia efficace
Una strategia di recupero di queste specie non può dunque fare a meno di intervenire su due fattori essenziali: la carenza alimentare e la rarefazione di idonei habitat riproduttivi. Una pianificata strategia di foraggiamento è senza dubbio una misura in grado di contrastare il deficit alimentare di queste specie nelle attuali realtà ambientali, comprese quelle nelle quali ancora prospera la cerealicoltura. In questi casi, infatti, l’estrema rapidità con la quale vengono interrate le stoppie dopo la mietitura, priva questi uccelli di una fonte alimentare, i semi residui, di fondamentale importanza durante l’inverno e la prima parte successiva primavera. Le riserve di grasso delle femmine sono infatti decisive per consentire loro di sostenere con successo l’immane sforzo rappresentato dalla produzione e incubazione delle uova, nonché dallo svezzamento dei pulcini.
Come procedere al recupero di validi siti riproduttivi in queste realtà così inospitali? La soluzione è semplice e quanto mai economica. E’ sufficiente intervenire negli appezzamenti incolti con semplici operazioni di falciatura di strisce larghe solo qualche metro alternate ad altrettante strisce, di dimensioni pressoché simili, lasciate viceversa in piedi. In tal modo si viene a costituire un mosaico caratterizzato dal susseguirsi di ambienti di rifugio e nidificazione, le strisce lasciate in piedi, e ambienti di alimentazione per i pulcini (ma anche per i leprotti), rappresentati invece dalle strisce falciate.
In conclusione, per la piccola selvaggina stanziale niente è perduto! Molto si può ancora fare. Certo, ci vuole una strategia adeguata: una sinergica azione di miglioramento ambientale e contenimento della predazione è la via maestra da percorrere per ottenere tangibili risultati.