Editoriale
Una questione di reputazione
La Conferenza regionale sulla caccia in Toscana, che si è svolta a fine giugno a Grosseto, rappresenta un momento importante di analisi e di programmazione per il futuro della nostra passione. In Toscana l’attività venatoria – in virtù di una rara convergenza di interessi economici e gestionali – ha un forte sostegno istituzionale che ha portato in determinati casi a intraprendere azioni che abbiamo criticato. È però un dato di fatto che la caccia nella Regione conserva un ruolo e un seguito sconosciuti altrove.
I dati forniti in occasione dei lavori fotografano una situazione preoccupante sotto svariati punti di vista. Nonostante un trend in continua decrescita (i cacciatori attivi si sono più che dimezzati dal 1995) la Toscana è il più importante serbatoio di cacciatori italiani, sia in termini assoluti, si parla di oltre 70.000 praticanti, sia in rapporto alla popolazione. L’età media è però alta, come nel resto della Nazione, e supera i 66 anni di età; un terzo dei cacciatori ha più di 70 anni e solo il 7% si colloca nella fascia 18-39 anni, fondamentale per dare un ricambio alla categoria. Accanto a questi dati, preoccupanti, va segnalata la ri-naturalizzazione del territorio che, nello specifico regionale, segna la crescita del 23% delle aree boscate tra il 1985 e il 2013. La superficie agricola utilizzata, cito il documento, ha subito una riduzione “pari al 26%; con un’ulteriore perdita di circa il 12% tra il 2000 e il 2010 e di un ulteriore 7% tra il 2010 e il 2018”. È un fenomeno rilevante con ricadute “in termini economici, sociali, idrogeologici, paesaggistici e naturalistici”. I dati raccolti diffondono la consapevolezza che la riduzione dei cacciatori non è solo un fenomeno culturale ma con potenziali conseguenze nell’uso sano del territorio. La Regione propone quindi una serie di azioni, tra cui il potenziamento della filiera alimentare, oltre a una revisione del modello di gestione del territorio e della legge quadro sulla caccia, ormai criticata da anni da tutte le componenti interessate.
Se in Toscana si respira un clima tutto sommato favorevole all’attività venatoria, nel resto d’Italia non la si può più considerare un diritto acquisito perché a essa non viene riconosciuto quel ruolo chiave nella gestione che ci sforziamo di sostenere da anni. Anzi, la caccia legale continua a essere confusa con il bracconaggio da rappresentanti delle istituzioni e da organi di stampa, che usano i due termini alternativamente e in maniera impropria. Questo, come ho già segnalato in più occasioni, non solo e non tanto dalle associazioni ambientaliste – la cui aggressività è motivata anche dai comportamenti scorretti di molti cacciatori che imperversavano nel passato – quanto dall’opinione pubblica in genere, influenzata da un giornalismo scorretto, non documentato, fatto per compiacere la corrente di pensiero mainstream. Dobbiamo rassegnarci, oggi non siamo più popolari e dobbiamo riconquistare come cacciatori una reputazione che abbiamo fatto di tutto per perdere. A parziale consolazione, rilevo come il fenomeno sia globale; ma questo lo rende ovviamente ancor più pericoloso.
La caccia che ci piace e che dobbiamo difendere strenuamente è quella regolata, basata su un uso sostenibile della fauna, supportata dal conforto della scienza. Quella che ci permette di essere gestori consapevoli di un bene comune e attori positivi anche nei confronti della nostra comunità. Si chiama, appunto, gestione. Pratica che in molti faticano a comprendere. Alcuni gruppi ambientalisti – come l’Oipa, Organizzazione internazionale protezione animali – considerano la gestione un intervento di manipolazione della natura volto a renderla un terreno fertile di caccia, dimostrando di non aver minimamente capito che cosa sia la conservazione. Per loro, lo leggo sulle pagine del sito ufficiale, attività come il controllo dei predatori (e sto parlando della volpe, non certo dei grandi predatori) pongono il cacciatore sullo stesso piano del bracconiere.
Il bracconaggio, mi piace ripeterlo, è mera uccisione di animali per soddisfare un qualche bisogno predatorio.
Un atto irresponsabile, egoistico, la cui portata è tale da mettere in pericolo intere specie di animali.
La caccia vera, al contrario, è attività addirittura indispensabile: nella caccia programmata, specialmente quella alle specie migratorie, il cacciatore ha un ruolo cruciale nel valutare lo status delle specie. È il caso della beccaccia e del cinghiale, per esempio, specie apripista oggetto di molteplici studi a cui i cacciatori e le associazioni venatorie partecipano fattivamente. Poi c’è la caccia di selezione, nella quale il prelievo diventa addirittura essenziale. Le due attività possono e devono coesistere per fornire alla comunità gli strumenti essenziali per la gestione. Rimane aperta la questione di come comunicare e dialogare con chi ci è pregiudizialmente contro. Potrà essere risolta soltanto se sapremo riappropriarci di quel ruolo che ci è stato scippato. Per farlo, dobbiamo tornare a crescere, in cultura e magari anche nei numeri, perché solo questa crescita potrà favorire il miglioramento della reputazione e farci considerare interlocutori, certo interessati ma partecipi delle ricchezze naturali del nostro territorio, dai nostri avversari.
Matteo Brogi