Uno studio recente cerca di prevedere che cosa succederà allo stambecco alpino tra 20, 50 e 80 anni a causa del riscaldamento globale.
I progenitori degli attuali stambecchi e delle capre selvatiche si originarono negli altopiani e nelle montagne dell’Asia centrale e si adattarono così a vivere su pendii scoscesi e rocciosi esposti a condizioni climatiche estreme, con inverni rigidi e nevosi, con una dieta frugale di erbe spesso bruciate dal gelo. In seguito a periodi glaciali gli stambecchi espandettero i loro areali a massicci montuosi medio-orientali, europei, nord africani, diversificandosi in specie distinte. I primi stambecchi alpini comparvero almeno 160.000 anni fa durante la penultima era glaciale, conosciuta come glaciazione di Riss. Come tutte la specie adattate ai climi freddi, lo stambecco alpino è un animale sensibile al caldo; mentre non mostra alcuna difficoltà nel sopportare i lunghi inverni tra le rocce esposte a bufere di neve e temperature glaciali, si trova decisamente piuttosto indifeso nell’affrontare le temperature estive. Come tutte le specie a sangue caldo, che gli zoologi chiamano più propriamente endoterme, cioè capaci di mantenere costante la temperatura corporea interna, lo stambecco tende a termoregolare, cioè a mettere in campo tutti i sistemi fisiologici e comportamentali per non andare in stress termico in presenza di temperature ambientali elevate e di irraggiamento solare eccessivo durante l’estate, ma stenta a dissipare il calore. Il maschio, che pesa il doppio della femmina, è ancora più sensibile alle alte temperature dato che il rapporto tra superficie corporea e massa, correlato alla capacità di cedere calore, è inferiore rispetto a quello nelle femmine. Come si comporta lo stambecco alpino nei mesi più caldi, come fa a difendersi dalle alte temperature estive? E come riuscirà una specie così sensibile al caldo a rispondere al cambiamento climatico globale?
A queste due domande ha cercato di dare risposta un recente studio condotto nel Parco nazionale del Gran Paradiso da Francesca Brivio e da altri ricercatori dell’Università di Sassari e dello University College di Dublino.
Gran Paradiso
Lo studio era suddiviso in due momenti, uno sul campo sopra il limite degli alberi, tra i 1.700 e i 3.300 metri, in Valle Levionaz, e l’altro al computer, elaborando modelli e prevedendo scenari futuri. Per due annate, dalla primavera all’autunno tra il 2010 e il 2011, sono stati seguiti nei loro movimenti e nelle loro attività 57 maschi adulti di stambecco su una popolazione complessiva di 130-150 animali: in tutto 163 giorni di osservazione degli animali e di raccolta di dati climatici (irraggiamento solare, temperatura, forza e direzione del vento alle varie altitudini). I ricercatori hanno iniziato la loro indagine con alcune ipotesi di lavoro, da confermare o meno. Per una specie così sensibile al caldo ogni scelta della zona da frequentare è dettata dalla necessità di evitare il più possibile le alte temperature, anche a costo di diminuire l’alimentazione; lo stambecco preferirà quindi cercare in estate aree più fresche piuttosto che pascoli di alta qualità. Dato che spostarsi è un’attività energeticamente dispendiosa, lo stambecco ogni giorno cercherà un unico rifugio termico invece di salire al mattino e scendere alla sera evitando l’ondata di caldo. E dato che il vento aiuta a perdere calore, probabilmente in estate lo stambecco cercherà i versanti più ventosi. L’ultima ipotesi di lavoro riguardava il futuro: col riscaldamento progressivo delle Alpi lo stambecco vedrà contrarsi sempre più le aree idonee di attività, relegate sempre più in alto sulle montagne.
Alla ricerca del fresco
Lo studio sul campo ha potuto documentare che in primavera, quando le temperature non sono ancora opprimenti, lo stambecco è libero di cercare i pascoli di maggiore qualità; in estate e in autunno i maschi seguiti mostrano di cercare soprattutto i luoghi più freschi, all’ombra, tra le rocce, confermando la prima ipotesi degli scienziati. Purtroppo questi rifugi termici hanno una valenza alimentare modesta e gli animali non sembrano capaci di adottare strategie in grado di ovviare alla bassa qualità del cibo, magari aumentando la quantità d’erba ingerita per unità di tempo con un maggiore numero di morsi o dilatando i tempi di pascolo. Come ipotizzato, ogni giorno, fin da subito, gli stambecchi tendono a dirigersi verso un’area che, quando la temperatura sarà al massimo, garantirà le migliori condizioni e non si muoveranno di lì per l’intera giornata. Proprio come ipotizzato dai ricercatori, la necessità di limitare al massimo gli spostamenti e non rischiare il surriscaldamento spinge gli animali a non seguire la tattica di salire al mattino verso le zone più alte e fredde per scendere nel tardo pomeriggio a quote più basse: troppe energie consumate. Resta piuttosto misterioso come gli stambecchi riescano a prevedere fin dal mattino dove le condizioni ambientali saranno più favorevoli a metà giornata, dove l’insolazione e il caldo saranno minori.
Contrariamente a quanto immaginato dai ricercatori gli stambecchi non cercano affatto pendii ventosi. Il vento, pur essendo un ottimo mezzo per abbassare il calore corporeo, è percepito dallo stambecco come un fattore di rischio, uno svantaggio: copre i rumori e svia gli odori, rendendo difficile l’individuazione di eventuali pericoli. D’altra parte tutti gli appassionati di ungulati sanno quanto il vento sia temuto, e lo stambecco, pur vivendo in ambienti ventosi, non fa eccezione.
Dare priorità alla ricerca della frescura piuttosto che ai pascoli più ricchi ha naturalmente delle conseguenze importanti: gli animali ingeriscono erbe di qualità medio-bassa e in quantità minore, e quindi crescono meno e hanno minori riserve di grasso per l’inverno.
Le simulazioni al computer
Il secondo momento dello studio ha riguardato il futuro della specie: conoscendo nel dettaglio le preferenze ambientali dello stambecco, dettate più da esigenze di termoregolazione che da necessità alimentari, avendo raccolto tanti dati climatici su insolazione, venti e temperature, altimetria per altimetria, e conoscendo le stime più affidabili delle tendenze future del clima, è possibile costruire dei modelli climatici e ambientali per i decenni futuri per quella valle alpina. Rispetto al 2011, anno finale dello studio sul campo, in quali parti della vallata si incontreranno condizioni simili a quelle ricercate dagli stambecchi? Quali aree serviranno come rifugi termici e pascoli in un futuro sempre più caldo?
Gli studiosi hanno immaginato due tipi di scenari: uno più ottimista che prevede come la comunità internazionale e gli Stati riescano a trovare misure concrete per frenare l’accelerazione del cambiamento climatico e che si arrivi a una stabilizzazione di valori di temperatura; uno pessimista che prevede come non si riesca a reagire al surriscaldamento globale e si vada verso una continua progressione dei valori di temperatura. I due tipi di proiezione (per il 2040, il 2070 e il 2100) si basano semplicemente su scenari climatici e quindi non considerano i possibili cambiamenti nella vegetazione, più che probabili se in futuro cresceranno le temperature delle praterie sommitali. Si tratta quindi di ricostruzioni semplificate utili a inquadrare le dimensioni del problema del riscaldamento globale su una specie particolarmente sensibile alle temperature elevate.
Pascoli sempre più ristretti
Il primo scenario, quello più ottimista, prevede che in 90 anni le aree estive idonee alla specie in Valle Levionaz saranno meno della metà rispetto al 2011, mentre le simulazioni del secondo scenario, più pessimista, prevedono che le zone di rifugio e pascolo estivo nello stesso intervallo di tempo si ridurranno a meno di un terzo. Come ipotizzato fin da subito dai ricercatori, il futuro dello stambecco alpino vedrà contrarsi drasticamente le aree estive adatte alla sua sopravvivenza. Se le popolazioni non cambieranno la propria consistenza una forte diminuzione delle superfici idonee si tradurrà in un iniziale sovraffollamento, seguito probabilmente da una maggiore mortalità e una minore natalità, e da una conseguente diminuzione demografica: se infatti i pascoli utilizzati sono più ristretti l’alimentazione disponibile diminuisce, l’accrescimento corporeo e quindi il rendimento riproduttivo ne risentono.
Naturalmente una scala temporale di qualche decennio è poca cosa nel corso dell’esistenza di una specie, che probabilmente ha in sè le potenzialità per adattarsi anche a questa forte perturbazione climatica causata dall’uomo ma che ha i suoi tempi lunghi per mostrarla, per modificare per esempio i propri ritmi di attività e le proprie abitudini alimentari. E se lo stambecco nubiano che vive nelle montagne dell’Arabia, dell’Egitto e del Sudan o lo stambecco abissino che abita gli altipiani dell’Etiopia riescono a convivere con irraggiamenti solari ed escursioni termiche elevate, forse anche lo stambecco alpino riuscirà a rispondere alla sfida del riscaldamento globale.
Che cosa si può fare in concreto fin d’ora per lo stambecco nel Parco Nazionale del Gran Paradiso e in ambienti simili? Senza dubbio si potrebbe cercare di minimizzare il disturbo e lo stress nei mesi estivi, regolamentando in modo restrittivo l’escursionismo d’alta quota nelle aree più strategiche per la specie, dato che il disturbo fa aumentare gli spostamenti e quindi i dispendi energetici, con maggiori rischi di surriscaldamento.