Da una parte la diffidenza che lo rende più schivo ed elusivo, dall’altra le nuove leggi di protezione e, soprattutto, le trasformazioni ambientali del territorio italiano: eccoli i motivi che hanno portato il lupo a ricolonizzare i territori un tempo perduti.
Tra tutte le specie di mammiferi selvatici presenti nel contesto faunistico italiano, il lupo è probabilmente quella che si presta meglio per analizzare l’evoluzione avvenuta negli ultimi decenni, in termini sia ecologici sia culturali. A cavallo degli anni Sessanta – Settanta la popolazione italiana di lupo è ridotta al lumicino, presente in alcune zone dell’Appennino dove si e ra mantenuto qualche nucleo di ungulati selvatici o nei distretti zootecnici dell’Appennino centrale, dove l’allevamento degli ovini ne garantisce la sopravvivenza. Questo nonostante che la pressione dell’uomo per eliminarlo sia portata avanti con tutti i mezzi possibili e in maniera capillare, grazie anche ai “lupari”, veri e propri professionisti che uccidono lupi in cambio di un premio da parte delle municipalità e delle comunità locali. È proprio il luparo una figura che a dispetto del pensiero comune ha un ruolo nella conservazione del lupo. Si legge in una nota di Leonardo Dorotea del 1862, a proposito del lupari: “questi trappolieri sono vaghi di catturare molti capi di siffatti animali, ma risparmiano le femmine di loro dicendo, senza mistero, che diversamente operando, la razza andrebbe a perdersi, e mancherebbe loro materia da esercitare la loro arte”. In sostanza mettono in atto un controllo letale degli animali più problematici che si avvicinano o creano danni alle comunità rurali, ma orientato per motivi opportunistici a mantenere una popolazione vitale, sempre più schiva, paurosa e diffidente nei confronti dell’uomo. La paura è la salvezza per la specie che, silenziosamente, inizia la propria avventura di ricolonizzazione dei territori perduti. Senza dubbio in questa dinamica espansiva ha un ruolo importante la norma, introdotta prima con decreto ministeriale nel 1971 e poi con norme successive, che rende il lupo una specie protetta, anche se comunque soggetta a un bracconaggio fortissimo; sono però le trasformazioni ambientali del nostro territorio che svolgono il ruolo principale. L’abbandono di massa dei poderi marginali e delle zone montane insieme a una serie di azioni finalizzate al ripristino dell’assetto idrogeologico e faunistico innescano una delle trasformazioni paesaggistiche più rilevanti della nostra storia.
Territorio nuovo, sempre il solito obiettivo
Nel giro di 70 anni l’Italia perde circa 12 milioni di ettari di terre agricole, con una crescita, in parallelo, delle superfici boscate che passano da 4 a 11 milioni di ettari, a un ritmo di circa 110.000 ettari l’anno. Migliaia di ettari di castagneti da frutto, impiantati artificialmente per produrre cibo per le popolazioni montane, vengono abbandonati, anche per le malattie che li colpiscono, e diventano una formidabile mensa per gli ungulati selvatici che nel frattempo sono stati reintrodotti in maniera capillare. Si afferma la politica delle aree protette, negli anni Settanta con i parchi regionali, poi con l’epopea dei “nuovi” parchi nazionali della 394/91, che arrivano a coprire oltre 2 milioni di ettari, pari al 7,4% del territorio nazionale per tutelare quel patrimonio naturalistico uscito indenne dagli anni di sfruttamento intensivo. Il lupo conosce così un momento decisamente positivo e inizia la propria cavalcata che lo porterà a riconquistare velocemente tutto l’arco appenninico, per arrivare ad affacciarsi sulle Alpi marittime nel 1992. Da qui continua la sua espansione, sia in territorio francese che sia l’arco alpino centrale ed orientale, che si conclude simbolicamente con il ricongiungimento con la popolazione di lupo dinarico, avvenuta sui Monti Lessini nel 2012. Ma non è tanto questa sua cavalcata montana da sud a nord a stupire (del resto l’Appennino è come un’autostrada ecologica per queste specie), quanto il percorso compiuto dalle dorsali appenniniche, verso sia il Tirreno sia l’Adriatico con una rapida diffusione nelle aree collinari e vallive, che fa capire quanto distanti dalla realtà fossero le tesi che descrivevano la specie indissolubilmente legata a ecosistemi intatti e indisturbati. Giocano a suo favore la straordinaria disponibilità di risorse trofiche ma anche una grande capacità di adattamento che permettono al lupo di insediarsi nelle campagne e nelle zone vallive, sfruttando di volta in volta quello che il territorio può offrirgli, compresi rifiuti e animali domestici, ma mantenendo in tutti i contesti una dieta incentrata prevalentemente sugli ungulati selvatici, anche nelle zone dove la predazione sul domestico è più forte. Tra queste la specie consumata in maniera preferenziale è il cinghiale, predato principalmente nella classe dei subadulti. La taglia è perfetta per il lupo; non si difendono come gli adulti e non sono difesi dalle scrofe. E sono a disposizione praticamente tutto l’anno. Il rapporto stretto tra cinghiale e lupo è ampiamente documentato e conosciuto fin dai tempi dei Romani. Anche Carlo Levi, in Cristo si è fermato a Eboli parla delle zone dell’Appennino meridionale dove “regna il lupo e l’antico, nero cinghiale”. Dove arriva il cinghiale arriva inesorabilmente il lupo, come dimostra la dinamica che si osserva nella Murgia, in Salento, e in altre zone d’Italia. La gestione di queste due specie non può essere effettuata senza considerare le loro strette relazioni.
Stime e saturazione
I numeri del lupo sono da sempre oggetto di discussione, fin da quando si produssero le prime stime relative agli anni Settanta: circa 100 dal gruppo di lavoro di Boitani, circa 300 da Luigi Cagnolaro. La differenza pari a un fattore 3 indica una probabile sottostima della specie, da sempre. Senza dubbio la crescita demografica di questa specie non è paragonabile a quella di altri mammiferi per motivi prettamente biologici: il fatto che solo una femmina del branco si possa riprodurre una sola volta l’anno e l’alta mortalità concentrata sui cuccioli e sugli individui in dispersione, associata alla notevole dimensione degli home range, costituiscono cruciali fattori limitanti. Ma sui numeri e sulla crescita ci sono delle incongruenze importanti. Basta pensare che nel report ufficiale per la commissione europea del 2015 Boitani (et al.) indica in 800 i lupi presenti in tutta l’Italia peninsulare, quando per la sola Toscana il gruppo di ricerca del Cirsemaf coordinato da Apollonio ne accerta la presenza di almeno 550 nello stesso anno. Alcune sottostime gravi provocano a loro volta un ritardo nell’adozione di politiche concrete per la prevenzione dei conflitti, economici e sociali. Ma non è tanto il dato assoluto, a oggi indicato in circa 1.700 lupi a livello nazionale, quanto le aree in cui la specie si è insediata a far riflettere: non sono più le faggete dell’Appennino, ma zone di pascolo come la Maremma, le Prealpi, il Trentino dove spesso sono presenti distretti zootecnici assolutamente impreparati a difendersi da predatori scomparsi da decenni e che creano danni e disagi in un momento in cui il settore zootecnico è in marcata crisi.
Siamo arrivati alla terza fase dell’espansione del lupo in Italia, che vede una sostanziale saturazione delle aree vocate e l’insediamento del lupo in contesti una volta inimmaginabili come le golene del Po, le riserve costiere della Toscana, le aree periurbane di molte grandi città come Roma, Firenze, Bologna. E per assurdo è in questa fase, in cui ha ormai raggiunto numeri così alti, che la specie entra nella fase più delicata della sua recente esistenza: la vicinanza all’uomo rende più facili gli incontri con i cani e i conseguenti accoppiamenti che portano a fenomeni di ibridazione con la conseguente perdita di integrità genetica, soprattutto in alcune regioni come la Toscana. I lupi si vedono più facilmente, perché si muovono in contesti antropizzati e perché mostrano minor timore dell’uomo. La diffusione degli smartphones, i social e i media fanno il resto, permettendo a tutti di acquisire e diffondere all’istante qualunque segnalazione, comprese le innumerevoli bufale che da sempre riguardano la specie. Nei nuovi contesti ambientali non sono solo le predazioni sui domestici a alzare il livello del conflitto: gli attacchi sui cani, sia da caccia sia da compagnia, allargano il confronto a categorie fino ad allora disinteressate alla questione. E le segnalazioni di presunti attacchi sull’uomo, frutto di vere e proprie mistificazioni, come il caso di Castiglion dei Pepoli del 2015 o quello recentissimo di Roccastrada, innescano inutili psicosi di massa.
Ci troviamo quindi in una situazione paradigmatica in cui, a fronte di una dinamica espansiva della specie così rapida e una reazione così accesa della popolazione, l’adeguamento degli strumenti gestionali, normativi e l’organizzazione del personale istituzionale preposto non tengono il passo, lasciando spazio ad un bracconaggio dilagante, nella totale assenza di uno schema nazionale di monitoraggio adeguato, elemento imprescindibile per qualsivoglia azione gestionale basata su dati piuttosto che su posizioni ideologiche.
Servono nuove soluzioni, serve rompere gli schemi ideologici e passare a una nuova fase della gestione del lupo, in cui il coinvolgimento di soggetti afferenti a settori diversi, tra cui senza dubbio quello del mondo venatorio, diventa una necessità e un’opportunità di crescita reciproca per le attività di studio, monitoraggio e per la gestione delle criticità.