La peste suina africana ha raggiunto il sud Italia: per combatterla è opportuno coinvolgere i cacciatori, soluzione adottata con successo in altri Paesi.
La peste suina africana è arrivata nel sud Italia, dopo circa un anno e mezzo dai giorni in cui furono denunciati i primi casi nelle campagne in provincia di Alessandria e in alcune aree della Liguria. Qualche mese dopo fu la volta di Roma e dintorni. Vincenzo De Luca ha firmato un’ordinanza per tentare di circoscrivere la diffusione della malattia nel territorio campano. L’area coinvolta è abbastanza circoscritta; ma per evitare che la situazione sfugga di mano le restrizioni hanno collocato in zona infetta diciassette comuni del Salernitano, più del doppio rispetto ai sette previsti in una prima fase.
In Calabria la giunta regionale guidata dal presidente Roberto Occhiuto ha imposto il divieto di caccia nel tentativo di ostacolare la diffusione del virus. Sono ben ventisei i territori comunali coinvolti dalla delibera regionale, una decisione che ha trovato la decisa critica delle principali associazioni venatorie attive sul territorio.
Perplessità di merito e di metodo
Non sono poche le perplessità che oltre che sul merito scaturiscono sul metodo delle decisioni assunte. Il metodo riguarda, principalmente, gli orientamenti a volte in contraddizione tra loro tra le decisioni delle amministrazioni locali e quelle delle autorità nazionali. Alcuni passaggi delle ordinanze firmate, in questo caso, da Occhiuto e De Luca non paiono in sintonia con quanto stabilito dal nuovo commissario straordinario Vincenzo Caputo, operativo dallo scorso 25 febbraio. Le Regioni stabiliscono un divieto generale di attività potenzialmente impattanti come la caccia; ma la struttura commissariale consente di continuare l’attività venatoria, almeno in forma individuale e alle specie diverse dal cinghiale.
Il merito dei provvedimenti riguarda il solito dilemma: ma i cacciatori devono/possono avere un ruolo negli interventi di contenimento o è giusto che siano tagliati fuori dalle decisioni come troppo spesso si verifica? Federcaccia, Libera Caccia, Enalcaccia, Arcicaccia, Anuu migratoristi, Italcaccia ed Eps hanno scritto al presidente regionale Occhiuto, chiedendogli di ripensare «l’approccio oltremodo burocratico» con cui a tre mesi dall’apertura ha vietato la caccia in ventisei comuni, con il concreto rischio che si riscontri lo stesso errore commesso in Piemonte e in Liguria.
Qualche notizia positiva
In un quadro per nulla rassicurante, due notizie le considero positive. Innanzitutto in Sardegna, regione in cui la Peste suina africana è endemica dalla fine degli anni Settanta, sono state ridotte le zone soggette a restrizioni. La commissione europea ha infatti ridefinito il perimetro delle zone a rischio; la porzione di territorio libero passa dal 42% al 60% e ora comprende 239 comuni. È stata ridotta l’estensione della zona cuscinetto, i comuni coinvolti passano da 76 a 56, e di quella in cui restano in vigore le restrizioni maggiori (da 21 a 12 comuni). Il presidente della giunta regionale Christian Solinas ha voluto sottolineare «il contributo dei cacciatori nelle operazioni di monitoraggio».
È positiva anche la disposizione del commissario straordinario con la quale ha disciplinato il meccanismo delle sanzioni per chi intralcia le operazioni di depopolamento del cinghiale: atti di danneggiamento, manomissione o intralcio nelle aree colpite dalla Psa e in quelle circostanti saranno puniti come interruzione di pubblico servizio (reclusione fino a un anno).
I cacciatori si mettono a disposizione del territori; il loro contributo può essere importante per il depopolamento del cinghiale, ma anche nella ricerca delle carcasse. A maggior ragione alla luce delle esigue forze a disposizione delle amministrazioni locali e nazionali, come guardia-parco, polizia provinciale e addetti forestali regionali. Per affrontare con sano pragmatismo il grave problema della peste suina africana è opportuno coinvolgere i cacciatori, soluzione adottata con successo in altri Paesi.
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