Editoriale
La grande illusione
Arrivo fuori tempo massimo ma non posso astenermi dal partecipare al confronto dialettico che è seguito alla Giornata mondiale del clima. Svoltasi in contemporanea in molti Paesi lo scorso 15 marzo, ha convogliato nelle piazze le proteste di tantissimi ragazzi che sono confluiti nelle iniziative dei Fridays for future di Greta Thunberg, la ragazzina svedese diventata il simbolo della battaglia contro la crisi climatica e il riscaldamento globale. Da agosto 2018 Greta ha organizzato varie forme di protesta davanti al parlamento del suo Paese per denunciare la mancanza di azioni forti sul tema. Per poi incontrare la celebrità quando è stata invitata a parlare a COP24 – la conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, a Katowice.
Ed è diventata il simbolo della protesta giovanile che reclama un futuro diverso, puntando il dito contro l’indifferenza degli stati più potenti riguardo le disuguaglianze climatiche e sociali nel mondo. Oggi il movimento più o meno spontaneo che è nato a seguito delle sue richieste è diventato un marchio globale e lei è stata addirittura proposta per una candidatura al Nobel della pace.
I bersagli della protesta di Greta e di chi la segue, non mancano gli adulti molto qualificati, sono lo sviluppo economico incontrollato e un utilizzo indiscriminato delle risorse del pianeta, situazioni che producono disparità, inquinamento e sono responsabili di quei cambiamenti climatici che in molti, ma non tutti, ritengono generati dall’uomo e forieri di catastrofi climatiche le cui conseguenze saranno sempre più gravi.
Molti, ma non tutti. Nei giorni del clamore suscitato dall’evento, ad esempio, è stato riesumato il video di un’audizione parlamentare di Carlo Rubbia del 2014. Vincitore del premio Nobel per la fisica nel 1984 e senatore della Repubblica a vita, all’epoca Rubbia sosteneva che i cambiamenti climatici sono una costante ciclica del pianeta.
Per esempio, nel 218 a.C. Annibale ha attraversato le Alpi con gli elefanti per venire in Italia. Oggi non lo potrebbe fare perché la temperatura della Terra è inferiore a quella che era ai tempi dei Romani. Negli ultimi 1.000 anni sono documentati cicli climatici di segno opposto, con piccole glaciazioni che si sono alternate a momenti di surriscaldamento, già prima che gli effetti antropogenici potessero essere ritenuti responsabili dei cambiamenti. Poi, certamente, è aumentata l’incidenza degli effetti causati dall’uomo, sempre più evidenti perché sempre più aggressivo è stato il progresso. Ma è necessario notare che la popolazione mondiale è cresciuta in maniera esponenziale: non raggiungeva il miliardo di persone nel 1800, era di un miliardo e 650 milioni nel 1900, si attestava sui 2,5 miliardi nel 1950 e ha raggiunto i 6 miliardi nel 2000. Poco dopo il 2025 si stima che supererà gli 8 miliardi. Ma se, da un lato, i disfattisti parlano di un’esplosione della temperatura e di un punto di non ritorno ormai prossimo (si sostiene che l’innalzamento di altri 2 gradi della temperatura media avrebbe effetti disastrosi e irreversibili) solo 5 anni fa lo stesso Rubbia sosteneva che dal 2000 al 2014 la temperatura della Terra non è aumentata ma, piuttosto, diminuita di 0,2 gradi.
Non voglio sottovalutare la questione del riscaldamento globale e delle variazioni climatiche che tutti riscontriamo nella vita di tutti i giorni. Ma ritengo che sia per lo più affrontata in maniera sbagliata, puntando tutto sulla demagogia e su un certo “lolitismo politico” – come è stata definita l’improvvisa popolarità della ragazza svedese – che affrontano un problema reale senza proporre soluzioni realistiche. Per di più, tutto quanto ruota attorno a questo movimento è quanto di più anti-umano si possa concepire, un pensiero che volge a un nuovo paganesimo nel quale un concetto astratto di ambiente – totem della nostra epoca – assurge a una centralità che viene a perdere il genere umano. Demonizzare lo sviluppo tecnologico – quando questo non diventi a sua volta un totem da venerare – non serve. Se non si trasformano in tecnocrazia, la tecnica e il progresso hanno permesso all’uomo di liberarsi dai vincoli imposti dalla natura alla sua vita. Come dice Chicco Testa, che abbiamo intervistato non molto tempo fa, “la grande abilità dell’uomo è stata quella di combinare la spinta della natura con la sua capacità progettuale, tesa a utilizzare queste forze per la propria utilità […]. Oggi viviamo un grande equivoco. Quello dei catastrofisti che vedono nella specie umana un pericolo per l’ambiente e per i quali, per salvare davvero il mondo, dovremmo eliminare la presenza umana: assisteremmo a una completa rinaturalizzazione del pianeta che avverrebbe in tempi geologicamente brevissimi. Ma il bello, l’utile e il conveniente sono concetti di fabbricazione interamente umana. Sono valori, ma non si dà giudizio di valore senza il soggetto che li costruisce, cioè noi”. Insistere nel dare all’equilibrio del pianeta un valore in sé presenta un errore di fondo; può forse essere un facile slogan, ma vuoto. E vuote sono molte misure imposte da trattati internazionali e protocolli d’intesa. Misure di coercizione e di impegno politico formale, senza una soluzione.
Mi suscitano molta più simpatia e un appoggio quasi incondizionato altre misure più semplici che hanno il pregio di coinvolgere potenzialmente tutti. Penso alle Trashtag challenge, iniziative concrete, spontanee, condotte da gruppi che hanno a cuore le sorti del pianeta e si sporcano le mani per dare un contributo. Segnalo tra queste il plogging (neologismo che unisce jogging e plocka upp, raccolta di rifiuti in lingua svedese) condotto da persone che uniscono l’attività fisica (il jogging, appunto) alla raccolta dei rifiuti che incontrano sul loro percorso.
Può bastare? Non credo, ma sono attività che possono coinvolgere realisticamente tutti noi e attivare quel percorso virtuoso, personale ma condiviso, che solo può dare una risposta alle domande che i ragazzi, e pure chi ha qualche anno in più, si pongono sul proprio futuro e su quello del pianeta.
Matteo Brogi