Editoriale
Coltiviamo la testimonianza
Il tema della proposta di un nuovo referendum sulla caccia ha animato le conversazioni delle ultime settimane. Con tanta preoccupazione da parte dei cacciatori ma pure delle associazioni tradizionalmente avverse all’esercizio venatorio. Il quesito infatti, più che puntare all’abolizione della nostra attività, mira all’abrogazione della legge quadro che la regolamenta. Se dovesse avere successo, alimenterebbe un vuoto normativo che non fa comodo a nessuno. Anche l’Enpa l’ha capito e si è pubblicamente dissociata dall’iniziativa, condannandola. Le Associazioni venatorie hanno fatto muro e affronteranno la questione con l’unità d’intenti e di approccio che caratterizza questa stagione politica.
Ritengo che si tratti di un’iniziativa estemporanea, probabilmente destinata all’insuccesso, ma ciò non toglie che la questione meriti attenzione e rispetto. In primis perché se mai la riforma dell’istituto vagheggiato da alcune formazioni politiche prendesse corpo, sarebbe più complesso che in passato passare indenni da un passaggio referendario. Secondariamente perché non si può negare che una fetta dell’opinione pubblica continua a palesare una forte contrarietà alla caccia. In più occasioni l’ho definita una minoranza rumorosa ma, in un mondo in cui si dialoga sempre di meno e si gioca sulla demonizzazione dell’avversario, le sue istanze potrebbero prendere corpo nell’indifferenza della maggioranza. Che, magari, la caccia non l’ha mai capita e non ne intuisce il valore per la biodiversità, il territorio, la fauna e chi la pratica.
La questione in gioco non è quindi come difenderci dagli attacchi ma come far diventare la caccia un valore condiviso perché compreso. Nell’editoriale del numero di marzo ho scritto che il nostro compito deve essere quello di comunicare la nostra passione descrivendola in maniera neutra, che non sia percepita come la difesa di una categoria messa all’angolo dal pensiero dominante. E l’obiettivo è ancora quello di far crescere la reputazione del cacciatore e aumentarne l’accettazione sociale, così da portare allo scoperto comportamenti che spesso vengono nascosti per paura di incappare nella disapprovazione pubblica.
Parlavo quindi di un livello di comunicazione istituzionale e di uno più personale nel quale è il singolo a nobilitare con i giusti atteggiamenti la propria passione. Si potrebbe ridurre il tutto alla solita raccomandazione di fare pulizia al nostro interno, così da veicolare solo comportamenti corretti e sostenibili. Ma non basta. Il punto è quello di educare una nuova generazione di cacciatori perché questa nostra attività si possa perpetuare nel tempo. Esiste solo un modo per soddisfare questa necessità e si chiama esempio, testimonianza.
«Portami a caccia con te» è stata una delle ultime cose che mi ha chiesto mio padre. Era una battuta, entrambi sapevamo che non era possibile. Quella consuetudine fatta di aperture, sveglie a orari antelucani, emozioni confuse ma sempre uguali allo sgancio del cane si era interrotta per sempre da qualche anno. È il ciclo della vita e maturità significa accettarlo con consapevolezza. E trasformare le proprie passioni e i momenti di condivisione in qualcosa di diverso, forse più intellettuale ma non per questo meno viscerale. Ricordo che la prima apertura da solo si portò dietro sensazioni contrastanti.
Da una parte sentivo di non essere più un cacciatore in cerca d’autore schiacciato dalla figura del maestro, dall’altro percepivo la nostalgia di un tempo che non sarebbe stato più. Si era compiuta una trasformazione, da quel momento avrei portato con me il bagaglio di esperienze e ideali appresi da mio padre e sarei diventato punto di riferimento per chi mi avrebbe osservato. Il salto generazionale si era compiuto, era il mio turno. E a me toccava – e toccherà finché ne avrò l’energia – trasformare la memoria di tanti insegnamenti e dell’esempio in qualcosa di fruibile da parte di una platea più ampia. Con la doppia responsabilità di farlo a livello individuale e a un livello più articolato; parlare alla comunità dei cacciatori in virtù della mia professione è una responsabilità che sento molto. Una responsabilità che non è mai abbastanza meritata.
Così ogni volta che esco con il fucile penso a chi mi ha passato degli insegnamenti utili e da valorizzare, non solo a mio padre. E penso che il culto della memoria che devo a lui e ad altri che ci hanno lasciato debba stare alla base del mio agire. Mio padre coltivava una passione viscerale ma rispettosa per la caccia, era un cacciatore etico quando il problema ancora non se lo poneva nessuno. Sapeva darsi un limite e, anche se la sua passione era seguire un setter e la mia è quella di individuare il capriolo che mi ha affidato il piano di prelievo, in quello che faccio cerco di perpetuare il suo esempio. Osservandolo, lo rendo in qualche modo immortale.
La testimonianza è importante: per i nostri figli, per chi ci osserva e addirittura per chi ci critica. È fondamentale per la conservazione della caccia. Non dimentichiamolo.
Matteo Brogi